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Yasujiro Ozu o la forma immutabile del mutamento

Yasujiro Ozu o la forma immutabile del mutamento

Nei film di Peter Hutton di tanto in tanto compaiono ciminiere, tralicci, campi vuoti, treni, e soprattutto nature morte à la Ozu. In New York Near Sleep for Saskia, un film di Hutton del 1972, ad un certo punto la luce si adagia sulla bottiglia di vetro del latte, passa, se ne va, mentre un film di Yasujiro Ozu finisce, è Viaggio a Tokyo (Tōkyō monogatari, 1953). Ma a dire il vero i film di Ozu non hanno mai un inizio né una fine. C’è piuttosto un eterno ritorno e dissolversi dei corpi. Corpi di studenti e operai, impiegati e dirigenti, bimbi e pensionati, madri e figli, padri e figlie. Il suo cinema si configura come una costellazione corpuscolare, una congiunzione e disgiunzione di corpi, molecole, che sono mosse anche se il piano è fisso, mosse da tensioni esogene e indogene, fuori e dentro la cornice domestica e il quadro della rappresentazione. Particelle che disegnano il tessuto sociale dei rituali, la tessitura visibile, la famiglia: un cardine schiodato. Corpi e stati di cose, profondità e superfici, l’essere profondo delle forze e delle tensioni, e quello dei fatti, eventi e cose, come direbbe il Gilles Deleuze di Logique du sens.

Nel cinema di Yasujiro Ozu i corpi separandosi (i figli si sposano e lasciano la casa, soprattutto a partire dai film dei primi anni Quaranta) disarticolano la tenuta della famiglia, la solidità dei nuclei identitari, polverizzandone l’unità formale, il quadro, la rappresentanza, componendo nuovi grappoli di significato, questa volta incerti, esitanti, sospesi sulla soglia di uno sguardo lungo l’orizzonte, al tramonto, mentre si disfano i bagagli o si riassetta la casa.

Significanza incessante, mentre i treni corrono e la società giapponese muta velocemente, se non traumaticamente. L’accettazione del destino non è mai così serena come è stato troppe volte detto, basti pensare ai frames incorniciati in altri frames (quinte nelle quinte) di Tardo autunno (Akibiyori, 1960), che sono come dei boxes di clausura. Che poi lo stile di Ozu sia sempre rigoroso e posato, ciò non toglie che proprio da tale composizione misurata, perfino sotto pressione potremmo dire, che da questo geometrismo esasperato si inneschi una tensione irrisolta, come nel finale di Tardo autunno in cui il sorriso disarmante di Setsuko Hara si fa affanno, velandosi di malinconia e perfino melanconia. Ma già in Tarda primavera (Banshun, 1949) la figlia sorrideva appena sull’orlo del pianto. C’è una dialettica viva tra la forma e il contenuto, tra la cornice geometrica (l’arredo domestico), in fondo statica, e i mutamenti (le entrate e le uscite, i matrimoni e i funerali, le passeggiate e i treni).

Il vuoto dell’inquadratura si fa inquadratura del vuoto, la sospensione dell’immagine-azione (le nature morte, gli spazi vuoti) schiude l’immagine diretta del tempo. Il pieno dei rituali, degli incontri, dei compromessi, delle locande che profumano di cibo, degli uffici affollati, rimanda al vuoto, l’uno non si dà senza l’altro. È il ritmo di cui respirano i film di Ozu. Quel vuoto che governa segretamente la vita della giovane vedova in Tardo autunno. Ma, come detto, il vuoto in Ozu è anche e soprattutto sospensione dell’azione, degli affari, dei negoziati per individuare il buon partito per la giovane figlia matura per maritarsi, è un’attenzione concentrata. Lo spazio vuoto diventa personaggio e supporto in cui si inscrive la durata sciolta dai legami temporali del racconto. La modernità che si invagina nel classicismo. L’immagine-tempo che si fa nel tempo, come diceva Deleuze, il mutamento nell’immutabilità, perché il tempo è pur sempre la cornice in cui si schiude il divenire. È la lezione profonda dello stile di Ozu, una configurazione di linee e figure, un coagularsi di posture, gesti e oggetti, un intreccio di fili che si fanno, disfano e rifanno incessantemente. Una meditazione sullo sguardo anzitutto, che non è mai distratto, disattento, ma un esercizio che si articola attraverso l’analisi dei rituali e dei comportamenti. Una disciplina estetica che cartografa il visibile, una “scrittura” etica.

E poi non ci sono solo la grazia e la misura su cui si è a giusto titolo insistito. I corpi scattano, possono essere anche buffi e animaleschi, tragi-comici, come nei film degli anni Trenta interpretati da Takeshi Tsukamoto, ridanciano e bighellone, in particolare nella “Trilogia di Kihachi”: Capriccio passeggero (Dekigokoro, 1933), Storia di erbe fluttuanti (Ukikusa monogatari, 1934) e Una locanda di Tokyo (Tokyo no yado, 1935). Corpi seduti sui cuscini, inginocchiati sul tatami, con-tenuti nel rito che fascia più del kimono. Corpi al risveglio della fatica quotidiana, che bevono sake, ridono, si disperano, piangono.

Eterno ritorno e dissolversi di sorrisi e inchini, su tutti staccano quelli di Chishu Ryu, i suoi sono i gesti di un corpo (im)permeabile, un corpo che transita e transmuta, che attraversa i siti degli eventi, i luoghi della memoria, le stanze dell’affezione, le taverne dei sogni e delle disillusioni, soprattutto i set di Ozu, dai primissimi anni Trenta sino alla fine, da La moglie di quella notte (Sono yo no tsuma, 1930) e Dove sono finiti i sogni di gioventù? (Seishun no yume imaizuko, 1932) fino a Buongiorno (Ohayo, 1959) e Il gusto del sake (Sanma no aji, 1962). Dalla giovinezza alla vecchiaia e dalla vecchiaia alla giovinezza. Studente, operaio, maestro, pescatore, giovane, vecchio, marito, padre, nonno, in un’andata e ritorno reversibili che non hanno alcun equivalente nella storia del cinema, se non parzialmente in quella che riguarda la relazione tra John Ford e John Wayne.

Eterno ritorno e dissolversi di entrate e uscite, attraverso shoji e fusuma. I corpi entrano ed escono nel quadro, nella com-posizione geometrica, culturale e sociale, una rappresentazione strutturata per assi orizzontali e verticali ma, al tempo stesso, destrutturata dalle onde emotive, i casi della vita, i vettori affettivi a stento trattenuti. L’inquadratura fissa di Ozu è in realtà mossa al suo interno, attraversata da un montaggio degli affetti e perfino dalla disposizione dei corpi la cui postura tende sempre a debordare la posa. I corpi sono inquadrati nel piano fisso, fissati e posati nelle cadenze della vita quotidiana, con un ritmo che sembra non lasciare margine all’inatteso. Corpi rinserrati nei rapporti, i rapporti che disegnano la composizione del quadro, i raccordi tra le inquadrature, e i rapporti-raccordi familiari, culturali e sociali. Insomma i corpi nel cinema di Ozu appaiono come bloccati anzitutto nello spazio filmico rigorosamente costruito, nella cornice che chiude e isola ma fino ad un certo punto. Le continue entrate e uscite di per sé smarginano il quadro, ne mettono in crisi i confini. Il quadro stesso in fondo è sua volta rappresentato. È come se Ozu, raccontando e mostrando sempre la stessa storia con alcune varianti, avesse voluto raffigurare la rappresentazione medesima, quella che rappresenta, incornicia, inquadra, fissa, blocca, scolpisce la violenza, familiarizzandola, chiudendola entro i confini dell’ambiente domestico e di quello lavorativo altrettanto disciplinato. Il cinema di Ozu è la rappresentazione della violenza istituzionalizzata e ritualizzata – che con Imamura, Oshima, Wakamatsu, Suzuki si libera di ogni forma di controllo, ma potremmo citare anche Takeshi Kitano che da un lato ha la gesticolazione improvvisa di Takeshi Tsukamoto e dall’altro il volto calmo di Chishu Ryu.

Ciò nonostante il suo cinema non è solo questo, ma, come accennato, è anche la messa in scena di tale rappresentazione. Ozu inquadra l’inquadratura, l’inquadramento di questi corpi, ci fa sentire la postura che vuole fuoriuscire dalla posa. Le tensioni nel gioco in cui vengono composte e ricomposte nello spazio filmico, in realtà, tendono a lacerare sia l’ordito narrativo che l’ordine sociale. La deflagrazione silenziosa del visibile trova il suo compimento più plastico nelle nature morte, negli inserti, nei vuoti che interrompono il corso del mondo e la logica dei suoi discorsi fin troppo pieni e trasparenti. Sospendono il regime narrativo, fermano il racconto. La trasparenza è messa in crisi e sospesa dalla durata di tali inquadrature anomale. La durata scava il tempo ordinario dal di dentro delegittimandone l’autorità con la quale batte il ritmo della vita quotidiana, dei suoi riti, delle sue fatiche, delle sue cadute. Gilles Deleuze ne L’Image-Temps ha osservato molto acutamente che Ozu non è solo il maestro della composizione geometrica, ma anche l’inventore degli opsegni, oggetti reali separati dal discorso che li lega ai processi circostanti, come le nature morte che coagulano la permanenza del tempo e sono come inquadrature autonome che, a differenza delle inquadrature brevi del modello hollywoodiano, non hanno la funzione narrativa di trascinare lo spettatore nella storia, ma quella di invitarlo alla visione. Così i suoi racconti, in realtà, assumono la forma della bal(l)ade, sono viaggi in treno, corse in biciclette, passeggiate.

Ozu divarica il tempo abitudinario anche in un altro modo, disfando l’intreccio narrativo che è anche l’intrigo e il complotto familistico, la maglia dei rituali, liberando la guerra di tutti i giorni, mettendo in scena la vita come continuazione della guerra con altri mezzi. È come un dissociarsi di quella relazione causale che invece sembrerebbe legare i personaggi ad un destino ineluttabile. Il tempo degli appuntamenti e delle commissioni, delle visite e del lavoro, è a sua volta raddoppiato, come un’ombra, dal tempo di questa violenza che irrompe nel fronteggiarsi dei corpi, nel corpo a corpo, nel campo/controcampo e negli scavalcamenti di campo che sono la violazione del sistema 180°, come nel finale di Viaggio a Tokyo. Ozu ad un certo punto sregola i rapporti e i raccordi anche quando impiega il classico campo/controcampo con una vibrazione, un’intensità inedite. Quindi anche quando impiega il campo/controcampo in termini più classici è comunque originale. Magistrale a tal proposito è il campo/controcampo di Capriccio passeggero, bello e terribile. Takeshi Tsukamoto, il padre, percuote un bambino, il figlio interpretato da Tokkan Kozo. Il piccolo risponde e colpisce il viso del padre per 25 secondi circa e infine scoppia in lacrime che poi saranno asciugate dal padre con cui infine si abbraccia. Messa in scena di un campo/controcampo che è corpo a corpo, cioè conoscenza e riconoscimento, come accade in 3 Bad Men (1926) di John Ford o Hell in the Pacific (1968) di John Boorman, o in Un bambino che non molla mai (Tokkan Kozo, 1929).

Guerra di corpi, fra corpi. Implacabile come la composizione di Ozu.

Nel suo cinema il visibile è lo spettacolo della violenza tra le generazioni e le classi, padri e figlie, madri e figli. L’interdipendenza della cultura giapponese di cui ci parlano i sociologi, fa sì che i genitori e i figli non siano mai isolati nel chiuso di un romanzo familiare. In Ozu ci sono le ciminiere e gli uffici, gli operai e gli impiegati, i vicini di casa, le gite con i colleghi di lavoro, le relazioni tra gli studenti. Il cinema di Ozu non è solo la rappresentazione di un microcosmo, la famiglia. La famiglia stessa è aperta, la casa comunica con le strade e le altre case, lo spazio interno è sempre aperto, incrinato, non è mai una cornice perfetta e definita, una struttura edipica. Ozu fin dai primi anni Trenta mette in scena il proletariato e le sue shitamachi, le zone urbane brulicanti e desolate, mostrando la modernizzazione capitalista che trasforma non solo il paesaggio ma anche la struttura familiare e i suoi comportamenti. Un processo violento che certo non nasce nel romanzo familiare e nella sua struttura edipica.

La violenza forse è come destorificata nel rituale della messa in scena ma mai sopita. C’è sempre una violenza che ritorna nell’essere mutante e nelle mutazioni dell’essere così tipiche del cinema giapponese. Le erbe dell’acqua cheta fluttuano e si agitano al di sotto della superficie. La violenza è “rappresentata” dentro la morbidezza dei rituali, perfino quello della “messa in scena”, ma non è mai rimossa. La violenza è “rappresentata” nel gioco di pose e delle cerimonie che danno a questa violenza una sorta di forma.

È la forma del mutamento, ciò che permane attraverso il divenire, la grazia di Ozu, quei tratti composti ed essenziali tipici dell’incanto e del mistero del mondo giapponese, come scriveva Heidegger in Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio, immaginando di interloquire con uno studioso giapponese. Tratti che il realismo di Rashomon (1950) di Akira Kurosawa tradirebbe (anche il film di Kurosawa sarebbe contraddistinto da tali aspetti, ma sarebbero poco appariscenti e quasi invisibili all’occhio occidentale: una mano posata in cui si manifesta la realtà di uno sfiorare infinitamente lontano dal toccare…). Heidegger sospetta che l’oggettivazione filmica di per sé occidentale e connessa con il processo di europeizzazione del mondo, sia non solo invadente, ma forzi il mondo giapponese ad entrare nel suo mondo. Non è lo stile del realismo occidentale che fa problema, ma la materialità rappresentativa della macchina-cinema che da un lato si accorda con gli aspetti più superficiali del mondo giapponese dopo la Seconda guerra mondiale (gli aspetti occidentali e americani) e dall’altro annichilisce l’aspetto più profondo, la sua realtà più vera rappresentata dal Teatro del No. La scena del teatro giapponese è vuota, è il supporto in cui si inscrive un raccoglimento inconsueto per gli occidentali, come la lentezza dei gesti che non sono leggibili semplicemente attraverso i comportamenti visibili. Il gesto nel Teatro del No è silenzioso, raccoglie qualcosa che è portato, come dice Heidegger, che tuttavia sbaglia a sospettare del cinema.

Ejzenstejn nel 1929 (Il principio cinematografico e la forma) aveva già individuato e stabilito i nessi e le affinità tra il cinema e il teatro giapponese (sebbene lui parlasse soprattutto del kabuki che per molti è una volgarizzazione del No). Addirittura Ejzenstejn ravvisava nei diversi rami della cultura giapponese il nervo principale del cinema: il montaggio. Semmai Ejzenstejn lamentava il fatto che i registi giapponesi tradissero non solo le proprie radici ma si rendessero così ciechi di fronte al principio del montaggio già insito nella loro cultura, adattandosi ai prodotti americani (ancora prima dell’occupazione americana).

Certamente anche i primi film di Ozu sono riconducibili al sistema dei generi del cinema giapponese influenzato dai modelli americani: le locandine di film americani tappezzano le case dei suoi film degli anni Venti e Trenta. Ma i film di Ozu si stagliano comunque per la loro superiorità. Cominciano a comparire degli inserti ripetuti (che in questo caso non hanno la classica funzione di rendere chiaro il racconto, semmai lo sospendono), le inquadrature dal basso e la profondità nelle inquadrature. Ma quel che più conta è che nei suoi film più maturi come in quelli più riusciti degli anni Trenta – per esempio Figlio unico (Hitori musuko, 1936) chiuso da tre inserti-durata – i gesti sono silenziosi e insieme dicono più o meno di quel che si vede, perché il vedere in Ozu è un contemplare, non un percepire alla maniera occidentale che non presta la dovuta attenzione a quella mano posata e non coglie la differenza tra lo sfiorare e il toccare. Anche il cinema di Ozu è capace di evocare quel silenzio possente del Teatro del No, raffigurando il Vuoto (mu, che Ozu aveva voluto fosse inciso sulla sua lapide nera), che non è la crisi, il nichilismo, la distruzione, ma la forma immutabile del mutamento.

E infine quel che è decisivo è che nella compostezza aggraziata, Ozu, mostra la guerra di tutti i giorni, la vita quotidiana spesso violenta come i duelli di Rashomon. La grazia, lo Iki, il soffio della quiete che luminosamente rapisce, è la forma di un narrato che non è affatto calmo.

Permanenza e mutamento, il tempo che si fa nel tempo, il divenire che si inscrive nel tempo, che poi ci rimandano là dove avevamo cominciato, a Peter Hutton, i cui diari di viaggio raccontano anzitutto il farsi del tempo, un viaggio nella percezione, esperienze vissute e mai semplici rappresentazioni: l’eco del mondo in cui risuona una musica per gli occhi.

Toni D’Angela