Marx? Lenin? Mao o, meglio, Debord? No, per cominciare l’attraversamento degli anni più politici di Jean-Luc Godard cominciamo da Los Angeles e poi dall’osservazione di un filmmaker sperimentale americano raramente associato alla militanza politica, Paul Sharits.
In una straordinaria conversazione su cinema e politica con Samuel Fuller, Peter Bogdanovich, Roger Corman e King Vidor, avvenuta a Los Angeles nel 19681, il 28 febbraio, cioè dopo la rimozione di Henri Langlois presso la sua Cinémathèque, Godard, rispondendo a Corman, afferma che il “soggetto” di un film come La Chinoise (1967) è anche, se non soprattutto, il modo artistico di rappresentare il “soggetto” del film, cioè non solo le storie dei personaggi ma il film stesso nel suo farsi. Secondo il credo modernista di Clement Greenberg2, si potrebbe dire che il contenuto del film è il film stesso, il suo medium. Ma Godard non ha solo decostruito, già nei film del primo periodo, il medium nell’accezione greenberghiana, come mezzo fisico, materiale, come supporto, ma anche in quella più larga di Stanley Cavell3: come supporto materiale e insieme di convenzioni estetiche.
Il film non è il riflesso del reale, non è uno specchio, e se lo spettatore è specchio, Godard tende sempre a frantumarlo e a dissociare realtà e rappresentazione. Il film ha da essere una reale rappresentazione, una realtà, quella della rappresentazione, che Godard anziché dissimulare, come nella trasparenza hollywoodiana, denaturalizza. La rappresentazione non è solo una spettralizzazione e coagulazione della realtà, è anche realtà che, proprio per combattere la sua stessa fantasmatizzazione, deve essere esibita e decostruita. Mettere in scena la scena per toglierla di scena. In fondo, lo ricorda Godard, sempre conversando con Corman, l’aveva già fatto Shakespeare.
È il presupposto del passaggio all’atto politico, della costruzione di una politica dell’immagine, del fare politicamente dei film politici, che caratterizza, in modo peculiare, gli anni che vanno dal 1968 al 1972. Sempre in quella quasi incredibile tavola rotonda di Los Angeles, qualcuno fra il pubblico chiede a Godard se preferisce realizzare dei film o impostare dei discorsi sociali e politici. La risposta non può non essere, evidentemente, che fra le due attività non c’è differenza, quantomeno non di natura, semmai di grado: fare politicamente dei film politici, significa fare dei film e fare politica, fare politica attraverso i film e fare i film attraverso la politica. Cambiare il pubblico, risvegliarlo, disincagliarlo dall’identificazione primaria e secondaria, è cambiare il mondo. Profeticamente, poiché oggi, nell’economia del visivo sempre più contrassegnata dalle immagini, cambiare il modo di vedere, far sobbalzare la spettatorialità, è una nuova forma di critica dell’economia politica.
Secondo Trotsky esiste una sorta di armonia prestabilita, un incontro necessario tra i rivoluzionari nell’arte e quelli nella politica. Godard è questo incontro stellare, questa collisione rigenerativa. Un film, documentario o fiction, diceva Godard non è né un sogno né la trasformazione del reale in un sogno, ma risveglio, liberazione da uno stato di assoggettamento – e soggettivazione, poiché il soggetto ha piacere nel divenire uno spettatore.
Il problema di Godard, a questa altezza, è, semmai, come aveva notato Paul Sharits4, realizzare film politici non solo per un gruppo ristretto di persone (intellettuali, artisti o operai) che sono già convinti della necessità del cambiamento politico, della rivoluzione, ma tutti gli altri, le masse, quelli che vanno al cinema per vedere i film hollywoodiani. Occorre, scriveva Sharits, attivare costoro.
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Come attivarli? All’epoca del cinema-pugno di Ejzenstejn, attraverso il montaggio. «Il prinicipio del montaggio era sempre stato legato al tema dell’attivazione del pubblico»5. E in Godard, un altro maestro del montaggio?
Un film come Un film comme les autres (1968), girato in 16mm quasi parallelamente al “situazionista” Le gai savoir (1968), non sembra essere un film come gli altri, né un film fatto per attivare chi ancora non è persuaso della necessità della rivoluzione. L’intervento di Godard – fare politicamente dei film politici – si inscrive nel mobile contesto di esperienze fra loro divergenti e, a volte, in contrasto, che caratterizza il cinema militante di quegli anni.
Nel mai ’68 francese la questione su come attivare e mobilitare gli spettatori – e raffigurare gli avvenimenti intempestivi del maggio francese – era aperta e scottante. Il dibattito tra filmmakers militanti, militanti tout court, era acceso e dai contorni incerti. Tutti si interrogavano su come filmare e con che mezzi, su come organizzare una distribuzione alternativa a quella dei circuiti commerciali. Affidarsi a specialisti (artisti, registi), professionisti leniniani della rivoluzione, affinare gli strumenti di questa professionalità, per mostrare e raccontare le lotte operaie e studentesche e, magari, le trasformazioni della produzione sociale e, conseguentemente, degli stili della vita quotidiana, oppure rimettere la camera nelle mani degli operai, anzitutto, e poi, forse, degli studenti? La prima posizione è quella di Jean-Pierre Thorn e del gruppo Ligne rouge e di quello di Cinélutte (dal cui alveo è scaturito un film come Oser lutter, oser vaincre, 1968, commissionato dagli États généraux du cinéma insorti dopo l’Affaire Langlois). La seconda è incarnata esemplarmente dal Groupe Medvedkine, articolato nei collettivi di Besançon (in cui militava Chris Marker) e di Sochaux (in cui militava Bruno Muel)6.
Per Thorn e gli altri collettivi di cui faceva parte, mettere la camera nelle mani degli operai rischiava di produrre dei prodotti da cinegiornale politicamente confusi e tecnicamente deboli. Oser lutter, oser vaincre era sì un documentario sull’occupazione di alcuni giorni di una fabbrica della Renault nel maggio del 1968, che inoltre mirava a criticare il riformismo opportunista del PCF e della CGT, ma era stilisticamente molto costruito – riferimenti di Thorn sono il formalismo russo, Ejzenstejn e Brecht. Se il cinema era un’arma di propaganda comunista, come sostenevano Thorn, Ligne rouge e Cinélutte, allora, secondo quanto stabilito dal Che fare? di Lenin, questo strumento di propaganda non poteva che essere affidato a rivoluzionari di professione, a professionisti. Anche perché un contenuto rivoluzionario richiede una forma rivoluzionaria. Thorn e gli altri militanti leninisti citavano anche Mao per dare dignità e peso alla loro posizione sulla necessaria funzione degli specialisti che hanno il compito di educare le masse. Credere nella spontaneità degli operai era solo demagogia o degenerazione anarcoide7.
Marker, al contrario, era convinto che per realizzare un cinema militante, d’intervento e rottura, occorresse affidarsi agli operai. Si trattava non di una considerazione teorica, ma di un’esperienza maturata sul campo. Quando lui e Mario Marret presentarono il loro documentario sugli operai À bientot j’espère (1967-68), ad un pubblico di operai, questo si ribellò contro quella rappresentazione. Marker si convinse così che solo gli operai potevano raffigurare le loro esperienze, i loro contesti di vita, le loro lotte. E quando raccontò loro di Alexander Medvedkin e del suo Cine-Train in Ucraina – dove, nei primi anni Trenta, filmò la vita di operai e contadini – furono gli operai stessi a scegliere quel nome per il loro gruppo. Un esempio di questo tipo di cinema politico in cui la classe operaia si guarda da se stessa con i propri occhi, è Classe de lutte (1969). Il che non significa che questo gruppo articolato su due collettivi fosse naïf, e non solo per la presenza e la supervisione di Marker o Muel, ma proprio per le capacità che si innescarono a partire da questa esperienza sul campo. I film prodotti erano costruiti secondo differenti strategie estetiche che ricorrevano anche détournement situazionista, che da un lato era certo un riuso e un potenziamento di tutta la tradizione modernista del montaggio e dell’assemblaggio, dall’altro, grazie a Debord e compagni, si era sempre più diffuso negli ambienti del cinema militante e artistico di quel periodo8. Ciò che le due posizioni avevano in comune, è che entrambe documentano storicamente come il maggio francese non sia stato affatto solo un movimento composto da studenti, ma anche, se non soprattutto, da operai.
La posizione di Godard? Il maggio ’68 è l’occasione, l’evento che in qualche modo Godard aveva atteso messianicamente per provare a farla finita con il cinema. La fine del cinema – e dell’ordine del discorso, della cultura borghese – l’aveva già annunciata ai tempi di Week-end (1967), ma Godard esita ancora. Il suo passaggio all’atto, in fondo, è ancora un modo di non passare all’atto, una potenza che può fare ma anche non fare, un’im-potenza che sospende la tracotanza e la volontà di potenza. Godard diceva che quelli che sanno che cosa sono le lotte, che ne conoscono il “linguaggio”, non sanno nulla del “linguaggio” cinematografico, mentre coloro che conoscono il “linguaggio” cinematografico, magari Marker e Resnais, non sanno nulla degli scioperi. Godard interviene nelle lotte potenziando il détournement e tutto l’arsenale tecnico-formale di cui è in possesso ma, al tempo stesso, regala agli operai una cinepresa affinché potessero loro stessi filmare quelle che erano, anzitutto, le loro lotte. (Godard, in effetti, anche se marginalmente, partecipa al Groupe Medvedkin di Besancon). Nondimeno, Godard non mette in mano la camera agli operai per realizzare i suoi film più militanti degli anni 1968-72, come Marker e Muel e i collettivi di Medvedkin, né gira un documentario in bianco e nero e in presa diretta – sebbene interpolato e complicato con slogan e testi – sull’occupazione di una fabbrica, come Thorn e Ligne Rouge.
Anche Philippe Garrel, all’epoca giovane membro del collettivo Zanzibar, sbocciato proprio attorno al maggio ’68, suggeriva di assaltare le sedi istituzionali del cinema per consegnare le macchine da presa agli studenti – non agli operai – anche se il linguaggio dei film Zanzibar (Jackie Raynal – che aveva collaborato con Godard – Pierre Clementi, Serge Bard e altri) era alquanto dandy:9 erano film molto liberi ma non politici, che, tuttavia, traevano alimento e ispirazione proprio dalle condizioni politiche dell’epoca, dalla gestazione rivoluzionaria, cioè dall’autogestione (rifiuto della delega) e dalla libertà di sperimentare nuove forme. Un grado zero della scrittura che aveva certo qualcosa in comune più con Le gai savoir che non con i film Ligne Rouge o del Groupe Medvedkin. Ma anche se Garrel girò, con la collaborazione di Godard e Bard e altri, e con l’utilizzo di queste macchine da presa che lui e Godard espropriano al Centre du Cinéma di Parigi, Actua 1 (1968), perso e poi ritrovato nel 2014 – che Godard definì il più bel film sul ’68 – Godard, rispetto a Garrel, non era solo alla ricerca di un linguaggio puro, una luce, un desiderio di quiete: voleva filmare le barricate e filmare come se la sua fosse una barricata.
In un’intervista del 1970 Godard chiarisce piuttosto chiaramente la sua posizione, sebbene egli stesso ammetta di non aver ancora trovato e affinato gli strumenti per tradurla. Anzitutto, Godard rammenta dell’incontro con il militante Gorin e della loro idea di fare politicamente dei film politici, che era qualcosa di diverso da ciò si andava facendo all’epoca. Godard, quindi, evidenzia la sua singolarità rispetto al cinema militante dell’epoca e anche agli Stati Generali. La differenza è resa attraverso un ragionamento politico sulla dialettica tra produzione e distribuzione. Molti cineasti militanti, osserva Godard, credevano che il punto nodale fosse la distribuzione alternativa a quella dei circuiti commerciali dell’industria del cinema. «Mentre tutto il cinema militante si definisce come un tentativo di diffondere i film in maniera alternativa», per Godard e Gorin, al contrario, si trattava, anzitutto, di dedicarsi ai «compiti di produzione», magari cercando nuovi mezzi, come il videotape, con cui Godard fa i suoi primi esperimenti, prima nel 1968, insieme, ancora una volta, con Marker, Vidéo 5 (1968) e poi nel 1970, con il gruppo Dziga Vertov, in entrambi i casi presso la libreria della casa editrice Maspero. Godard diceva che i videotapes avrebbero fornito nuove occasioni ai militanti, sia per la produzione sia per la distribuzione, senza illudersi che anche quel settore, presto o tardi, sarebbe finito sotto il controllo della borghesia.
Ad ogni modo, la contraddizione non sta nella distribuzione, secondo Godard, ma nella produzione, cioè nel fare un film nel modo giusto, politicamente giusto, a quel punto, il film stesso, la sua produzione avrebbe indicato come distribuirlo. Il punto di partenza, scriveva Marx nella Introduzione a Per la critica dell’economia politica, è «la produzione degli individui socialmente determinata»10, una produzione che è concepita come «un determinato organismo sociale»11. È in questi termini che Godard pensava al suo lavoro con il gruppo Dziga Vertov: un modo per partecipare ad un movimento più vasto di un semplice moto di ribellione individuale. Se è così, allora è evidente che occorreva, prima di tutto, analizzare le condizioni generali della produzione, e poi anche la distribuzione, che è il momento medio, e, infine, lo scambio o consumo, cioè la ricezione spettatoriale: di nuovo il problema di Sharits: come attivare o risvegliare gli spettatori. Temi e problemi su cui riflettevano anche i critici militanti di Cinéthique. Ma i rapporti dialettici fra produzione, distribuzione e consumo, come spiega Marx, sono più complessi. Infatti, già producendo, sperimentando nuovi rapporti di produzione, il gruppo Dziga Vertov consuma, risoggettiva se stesso e questo consumo, a sua volta, stimola una diversa produzione, stimolando non solo i produttori (Godard, Gorin e gli altri cineasti militanti), ma anche lo spettatore che, potenzialmente, potrebbe chiedere nuovi prodotti del tipo de La gai savoir o Vladimir et Rosa (1970, Groupe Dziga Vertov). Ma, come spiega sempre Marx, la distribuzione sembra essere originaria e precedente alla produzione. Lo spettatore, nei cinema, trova già da sempre un certo tipo di prodotti distribuiti, e in questo caso è la distribuzione, il senso diffuso, che circola, a determinare la produzione e anche il tipo di consumo. Questo perché la distribuzione, anche quella cinematografica, presuppone una distribuzione degli strumenti di produzione (studios, teatri, ecc.) e una distribuzione degli individui in classi, posizioni del processo produttivo, di consumo, ecc. Queste pratiche e i loro rapporti dialettici sono il prodotto delle condizioni storiche. Godard e il gruppo Dziga Vertov hanno cercato, sul terreno della teoria e della pratica – un lavoro sul campo – di affrontare questi nodi, interrogandosi sui presupposti economici, tecnici, ideologici del fare un film, distribuirlo e recepirlo.
Ma Godard, pur facendola finita con la rappresentazione e il patto sociale che essa implica, fra arte e pubblico, non è, soprattutto in questi anni, semplicemente un artista modernista, secondo la definizione formalista, riduzionista e autonomista di Greenberg, cioè non si limita a concentrarsi sui mezzi espressivi e tecnici del proprio medium, rappresentando la rappresentazione, elevando a contenuto del suo film il film medesimo. Specialmente se, sempre secondo Greenberg, sbucciare il proprio medium ed esplorarne le possibilità estetiche, significa, in qualche modo, continuare con altri mezzi la tradizione, piuttosto che sovvertirla. Il cinefilo Godard, che tanto ha amato il cinema, non vuole perpetuare la tradizione hollywoodiana e il suo linguaggio ideologico della trasparenza: Godard innova sulla base della tradizione ma, al tempo stesso, rompendo con essa. Né si tratta di conoscere e riconoscere, come suggerito da Michael Fried, le convezioni che regolano medium e discorsi artistici, ristabilendo l’autorità delle convenzioni, per quanto storiche, cioè restituendo un senso di convinzione alla convenzione: il suo cinema militante non è riducibile ad una politics of conviction12. Poiché anche in questo caso, secondo Fried, l’artista modernista, ha il compito o la vocazione a scoprire e indagare il nesso che sussiste fra il suo lavoro, le opere moderniste, e le convenzioni del passato, che, tradizionalmente, hanno governato la pittura o la scultura – non è il caso di dire il cinema, perché Fried, non conferisce dignità artistica al cinema. Per aderire a tale definizione, Godard dovrebbe fare film ci permettano di riconoscerli come eredi di una certa tradizione, per esempio il cinema hollywoodiano o, magari, il cinema delle avanguardie storiche o il cinema d’autore. Ma Godard vuole farla finita, sia con un discorso essenzialista e purista (à la Greenberg) sia con la continuazione con altri mezzi della tradizione (come propone Fried), cioè non vuole condurre per mano lo spettatore affinché costui, in un processo di riappaesamento, ritrovi, nel film moderno e fratturato, la retta via della tradizione e dei grandi maestri del passato. Godard non è riducibile nemmeno alla brillante dicotomia proposta da Cavell di modernizzatori/modernisti13: secondo la quale i primi vorrebbero sbarazzarsi delle tradizioni ossessionati dalla novità, mentre i secondi cercherebbero con nuovi mezzi di salvare la tradizione. Godard non è affatto ossessionato dalla novità – quello è il capitalismo – anche perché ha conosciuto, amato, usato la tradizione, fino a portarlo a un punto di non ritorno, ma, soprattutto, ricerca mezzi nuovi per esprimere cose nuove, ibridando differenti media nei suoi film e concatenando cinema e politica.
Nondimeno Godard, ha le sue esitazioni in questo periodo. Non solo ammette di non aver ancora risolto il problema, ma anche la difficoltà di dover finanziare per esempio un film sulla Palestina, accettando commesse della televisione tedesca, italiana, piuttosto che britannica. Sempre la produzione, ancora la produzione, la produzione di individui socialmente determinati, una produzione che è come un organismo sociale, «un soggetto sociale che agisce entro una totalità, quindi, lavorando di mattina per un spot commerciale (lavorato ironicamente) su un dopobarba, Schick (1971, co-diretto da Gorin), e il pomeriggio contro la società dei consumi e il suo linguaggio pubblicitario.
Inoltre, Godard, nel 1968, da un lato decreta la fine dell’autorialità, disarticolandola nel gruppo Dziga Vertov, dall’altro continua la riflessione autocritica sui mezzi di produzione delle immagini e delle parole, sapendo bene, come i teorici militanti di Cinéthique come Leblanc, Fargier e Baudry, che il mezzo non è neutro e trasparente ma già di per sé produce ideologia, a partire dalla sua parentela con la prospettiva quattrocentesca14 e, quindi, con una visione possessiva, individualistico-possessiva, come direbbe Macpherson, cioè borghese, del mondo15: la società borghese è quella in cui si «genera questo modo di vedere, il modo di vedere dell’individuo isolato»16. Insomma, la sfida forse impossibile di Godard e di film come La gai savoir e Vladimir et Rosa, era un’altra: congiungere e disgiungere cinema e politica, politica e arte.
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Il contesto e il dibattito erano, infatti, segnati anche dall’opposizione dicotomica fra cinema militante e cinema d’arte, rifiutata e ricomposta dalle prassi artistico-politiche dei lettristi (Isou, Lemaitre) e, soprattutto, dei situazionisti e, in particolare da quel Guy Debord. Questi, in quei mesi dava del coglione a Godard, non gli riconosceva di aver rotto con lo spettacolo. In un intervento pubblicato dall’Internazionale situazionista17, si scriveva che Godard era «l’equivalente di Lefebvre o Morin nella critica sociale» e che il suo uso del collage, celebrato da Aragon – un uso che si limiterebbe solo a devalorizzare (pars destruens) e non a rivalorizzare (pars costruens) – non è altro che un noioso esempio del collage introdotto dal cubismo e prima ancora da Lautrémont, che poi, non è un che un’applicazione speciale del détournement. Ma, certo, al di là di queste considerazioni di politica estetica, Debord non poteva perdonargli la sua ingenua adesione al maoismo o ad una certa idea del maoismo per come era recepito e trasformato a Parigi. Prima ancora dell’Internazionale Situazionista, già il gruppo Socialisme ou Barbarie, nel 1958, aveva smascherato la Cina, rivelandone la natura burocratico-militare ed elaborando una critica delle incipienti correnti terzomondiste, anche grazie all’apporto di Lyotard18. Pertanto, entusiasmarsi (come capitò anche ad Alain Badiou) per Mao e la Cina nella Parigi del 1968, per un intellettuale e artista come Godard, non poteva che essere un grave errore, che l’intransigente Debord, giustamente, non gli perdonò. Ciò nonostante Godard aveva guardato al suo esempio per Le gai savoir e lo aveva citato in Un film comme les autres – per non parlare della “presenza” di Debord nelle Histoire(s) du Cinéma (1999).
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Arte e politica. Dai tempi della Rivoluzione d’Ottobre, dei tormentati rapporti fra Lenin e le avanguardie artistiche – tormenti che nulla hanno a che spartire con le epurazioni staliniane del realismo socialista – della parabola del costruttivismo, del surrealismo e della Guernica (1937) di Picasso, la relazione fra arte e politica è sempre stata oggetto di controversie nella sinistra anche più eterodossa ed eretica, mentre nell’ambito delle controrivoluzioni fasciste e staliniana, l’arte è stata piegata ai regimi totalitari. Debord e i situazionisti, citando una tarda lettera del vecchio Engels al biografo di Marx, Franz Mehring, rimproverano ai fondatori della scienza e prassi rivoluzionaria di aver trascurato troppo il lato “formale” delle cose. I situazionisti riconoscono lo sforzo dei surrealisti di integrare e innestare l’avanguardia politica con quella artistica ma, al tempo stesso, ne decretano anche il fallimento, la decomposizione dell’arte modernista e anche dell’avanguardia politica basato sul modello bolscevico, ancora rappresentativo (cioè spettacolare), proponendo una nuova modalità, un nuovo approccio sia per l’arte sia per la politica sia per il loro reciproco innesto. Il che non implica che i situazionisti fossero affini alle posizioni di Ligne rouge, poiché la loro pedagogia anti-spontaneista, oltre che richiamarsi a Mao e al modello cinese (di fatto un capitalismo di Stato), era intrisa di quel modello rappresentativo, di quella delega – secondo cui un’élite, un’avanguardia educa le masse operaie, porta la coscienza dall’esterno all’interno della classe, ne rappresenta interessi, problemi e lotte – criticata da Debord e dall’Internazionale Situazionista, che, peraltro, era tutto, fuorché spontaneista: le situazioni erano predisposte. Lo spettacolo è la rappresentazione, sia quella filosofica (porsi il mondo dinnanzi come fosse un oggetto manipolabile) sia quella politica (per cui le masse delegano l’esercizio del potere ad un gruppo, un ceto dirigente che ne rappresenta gli interessi), quella rappresentazione che Godard, negli anni 1955-1967, aveva già assaltato, almeno relativamente ai modi di rappresentazione culturali (nel senso di Raymond Williams) e ai mondi narrativi (e ideologici) che essi producevano.
Nell’editoriale del primo numero dell’Internazionale situazionista19, nel giugno del 1958, Debord e gli altri compagni dell’epoca, osservavano che quel mondo combattuto dai surrealisti, non solo aveva resistito, ma si era dato una riverniciata usando proprio i metodi impiegati dal surrealismo. È la forza del capitalismo e della sua capacità di interiorizzare il fuori: come avevano intuito gli operaisti italiani degli anni Sessanta e come sperimenteranno gli autonomi del ’77, accadrà anche durante la crisi di ristrutturazione degli anni Settanta, con la conversione del fordismo nel postfordismo, capace di mettere a profitto le attitudini, i comportamenti, i gesti sovversivi e perfino il rifiuto del lavoro salariato del ’77.
Nell’editoriale del terzo numero20, dicembre 1959, i situazionisti sanzionavano la decomposizione dell’arte, indicando il compito delle avanguardie: una critica generalizzata a tutti i livelli (politica, arte, vita quotidiana), cioè una critica della separazione, e un primo tentativo di risposta (a partire dalla ricomposizione di politica, arte e vita quotidiana) attraverso la pianificazione di situazioni. Il Modernismo, da Mallarmé a Joyce, dal cubismo al surrealismo, è l’autopsia di un cadavere, la società borghese e la sua cultura, il suo linguaggio. Ma occorre andare oltre. Non solo non legarsi a quella cultura ma nemmeno semplicemente negarla. Questo è anche il nocciolo della critica all’estetica di Godard e al suo uso solo devalorizzante del collage. Non si tratta più e solo di mettere in scena le rovine dello spettacolo. «Non vogliamo lavorare allo spettacolo della fine di un mondo, ma alla fine del mondo dello spettacolo»21. In qualche modo è una riformulazione della celebre XI Tesi (Tesi su Feuerbach) di Marx.
Godard è criticato anche in un intervento particolarmente significativo sul rapporto politica/arte, pubblicato dall’Internazionale situazionista nell’ottobre del 1967 e firmato da René Vienet: “I situazionisti e le nuove forme d’azione contro la politica e l’arte”22. Vienet scrive che la critica teorica della società moderna deve collegarsi alla critica in atto, sul campo, attraverso il détournement, concepito come dirottamento e stravolgimento dei linguaggi più diffusi e popolari, come quello della pubblicità e del fumetto (che, in qualche modo, Godard assalta per esempio in One Plus One, 1968), articolando una guerriglia nei mass media, realizzando film che si approprino dei balbettii della scrittura cinematografica e, in particolare, dei film di serie B, di attualità, i trailer, gli spot pubblicitari. Si tratta, in qualche modo, anche del terreno su cui si cimenta Godard negli anni Sessanta: dal richiamo ai film di serie B alla denaturalizzazione dei linguaggi dei mass media. Ma i situazionisti imputano a Godard un utilizzo incompiuto del détournement (la negazione, ma non il preludio), poiché il détournement è il «riutilizzo in una nuova unità di elementi artistici preesistenti»23, come scriveva Debord qualche anno prima.
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L’affaire-Langlois, cioè la decisione di André Malraux, ministro della cultura di Charles De Gaulle, di rimuovere, nel febbraio del 1968, dalla Cinémathèque il suo storico fondatore, è stato spesso considerato come una sorta di preludio al maggio francese. In quell’occasione, dalla parte di Langlois, non si schierarono solo registi e intellettuali, e fra questi ovviamente Godard, ma anche molti parigini che manifestarono contro la decisione di Malraux e contro costoro furono inviati i poliziotti a disperdere la folla. Nacque così un Comitato di difesa della Cinémathèque a cui aderirono non solo i registi della Nouvelle Vague, ma anche i vecchi Renoir e Carné e alcuni importanti cineasti italiani come Rossellini, Antonioni, Bertolucci e Bellocchio – anche Hitchcock e Kurosawa manifestarono la loro solidarietà al fondatore della Cinémathèque. Malraux fu infine costretto a reintegrare Langlois proprio nel maggio del 1968. Esiste anche un documento in 35mm del marzo 1968 di poco meno di un minuto, in cui Godard e Truffaut parlano in sostegno di Langlois (Jean-Luc Godard et François Truffaut vous parlent, 1968).
L’inizio di un’epoca, secondo i situazionisti24. L’irruzione del divenire nella storia, l’intempestivo, il divenire minoritario, secondo Deleuze25. Non un movimento studentesco, ma un selvaggio e audace movimento delle occupazioni delle fabbriche, del rifiuto del lavoro salariato, dello Stato, dei partiti e dei sindacati e dei pensionati del marxismo, una festa e un’esaltazione del dialogo, della parola libera, della comunità. Il maggio del ’68 è stata una grande sfida lanciata dalla classe operaia contro il potere borghese. Jean-Luc Godard, con limiti e pregi, ha voluto prendere parte e dare un contributo a questo sommovimento. E non solo attraverso la partecipazione agli Etats généraux du cinéma (costituiti il 17 maggio 1968) e il boicottaggio del Festival di Cannes, a cui partecipò anche Truffaut. Fu l’ultima volta che i due amici, in qualche modo, cooperarono. Godard poco dopo si unì a Chris Marker per realizzare i Cinétracts (1968), segmenti di pochi minuti ciascuno, foto-montaggi e foto-testi degli avvenimenti del maggio ’68, delle violenze della polizia, delle manifestazioni degli operai e degli studenti, montati in modo anonimo da Marker, Godard, Resnais, Garrel e altri. In uno dei suoi riconoscibili cinétract, il numero 9, Godard, di fatto, decreta e dichiara la rottura con Truffaut (che non stava prendendo parte alle lotte) e il suo cinema, inchiodandolo all’immagine di una filosofia borghese che, in qualche modo, come suggeriva involontariamente un articolo di Gilles Jacob scritto per Sight & Sound (su Truffaut e Lelouch), perpetuava, sulla Senna, l’imperialismo hollywoodiano.
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L’idea dei Cinétracts, un centinaio di rulli in bianco e nero in 16mm, fu di Marker ma, al tempo stesso, collettiva. Godard, Marker, Resnais, Garrel e altri, volevano organizzare una sorta di guerriglia delle immagini agit-prop, sul modello di quello che i bolscevichi impiegarono attorno al ’17 e poi ripreso dal teatro di Brecht, per allestire e diffondere una contro-informazione sugli avvenimenti del maggio ’68. Si tratta di segmenti di pochi minuti ciascuno sulle violenze della polizia e le manifestazioni degli operai e degli studenti. Immagini fisse, fotomontaggi, scritte a mano, senza suono. Se le still images rimandano a La Jetée (1962) di Marker, le scritte a mano fra i le immagini o sulle immagini, rinviano invece a Godard. Ma tutta la sintassi dei Cinétracts è fortemente influenzata da Godard, al di là dei singoli segmenti di cui si può attribuire la “paternità” a Godard, che peraltro non sono affatto pochi. Per Godard era un modo, dopo l’Affaire Langlois e il boicotaggio di Cannes, di continuare e innalzare il suo livello di partecipazione alle lotte dell’epoca, diventando un operaio della cinepresa.
L’occupazione delle fabbriche, le barricate, attraverso fotomontaggi e didascalie (cinetract 1); la polizia, il discorso dell’ordine, la violenza, attraverso le dissolvenze incrociate (cinétract 4); un uso dell’image-text per denunciare la violenza della civilizzazione borghese, quella machiniste ingenuamente celebrata da Le Courbusier, quella del cul, cui si allude in Pierrot le fou, difesa da quel De Gaulle sovraimpesso ai dittatori Franco e a Salazar (cinétract 7); la critica del comfort borghese dello spettacolo cinematografico a cui partecipa anche l’ex compagno di strada Truffaut (cinétract 9); studenti e operai barrati con una “x”, come a ri-levare la loro identità per disarticolarla in una più mobile, rimescolando le carte del gioco, innestando gli studenti nelle fabbriche e gli operai nelle università, tutti uniti contro la cultura – del lavoro salariato – l’arma segreta e favorita della borghesia: un’alleanza in cui, nella scritta a mano, la e è spostata per fungere da raccordo tra il solido dell’operaio e l’aereo dello studente: solid e air (cinétract 16); l’assalto al cielo, sotto l’egida di Brecht, in cui Godard, attraverso delle autocitazioni, cerca di inscriversi per avere una qualche parte che non sia solo spettatoriale (cinétract 23).
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All’inizio del 1968 Godard stava lavorando a La gai savoir, ma l’Affaire Langlois e gli avvenimenti di maggio, depennano il progetto che sarà ultimato solo in estate. Dopo il mese di maggio, Godard gira un ulteriore ma più estremo e radicale addio al linguaggio – del cinema.
Un film comme les autres, per riprendere e rilanciare la questione posta da Sharits su come attivare e mobilitare quei soggetti che non volevano più essere soltanto spettatori di film e della storia. Certamente non era, né è, un film come gli altri. Inquadrature lunghe, quasi sempre statiche, inserti in bianco e nero degli avvenimenti di maggio, sovrapposizioni di voci di tre studenti e due operai, di cui non vediamo mai i volti, che, a cose fatte, ai margini, in periferia, riflettono su quanto accaduto e sulle prospettive di lotta, di tanto in tanto, incalzati dalla voce fuori campo di Godard. Un film che impressionò molto il gruppo di Cinéthique e che ha un’aria di famiglia con un altro film che dis-giunge gli avvenimenti di maggio con dimensioni più intime e che fa un uso radicale del repertorio linguistico sperimentale (foto-montaggio, collage, dissociazione immagine/parola, scomposizione narrativa, voci fuori campo, citazioni testuali), cioè L’étè (1968) di Marcel Hanoun, a cui la rivista di Leblanc e Fargier aveva dedicato una copertina. Del resto, Hanoun, già dai tempi del suo primo lungometraggio, Une simple histoire (1959), aveva radicalmente dissociato parola e immagine, come Godard – che aveva recensito il film sui Cahiers du Cinéma – farà poco più tardi.
A quell’altezza, questo film in 16mm, è il più lungo. Un tour de force per forzare il film tout court, farne una torsione e farlo debordare, fuoriuscire da sé. A partire dalla cortocircuitazione fra documentario e fiction. Godard rimescola ancora una volta le carte. Le immagini del documentario sono più spettacolari e avvincenti di quelle della fiction, le prime sono mosse, le seconde quasi fisse.
Un film comme les autres è uno sforzo per superare anche il problema posto da Sharits, cioè: come attivare chi non è ancora convinto della necessità della rivoluzione? Il film, in cui non a caso risuonano i nomi di Debord e Vaneigem, è già un primo tentativo di trasformare la politica sul terreno – quello che nel film è costellato di fiori – della vita quotidiana e viceversa.
Dopo il divorzio fra borghesia e proletariato di L’aller et le retour andata e ritorno des enfants prodigues dei figli prodighi (1967), in cui è mostrato che nessun amore è possibile fra le due classi sociali – e nessuna cultural theory di sinistra può ricucire tale strappo, in Un film comme les autres Godard radicalizza il décalage, il divorzio, la dissociazione di immagine e parola, che tanto aveva impressionato Susan Sontag qualche tempo prima26. Non si tratta, infatti, di attivare proletari e studenti attraverso gli strumenti e i modi di rappresentazione del film, nemmeno di quello politico, con un “messaggio”, fondato sull’associazione di parola e immagine. Così come non si tratta certo di organizzare la società senza classi come se fosse un’azienda capitalista, sulla base del linguaggio razionalista del capitale, come osservava l’operaista Panzieri nei primi anni Sessanta. L’insubordinazione operaia, quella che scatenò le paure dei predoni del capitale che succhiano lavoro vivo e vita e dei loro rappresentanti politici nel 1968 e quella che secondo l’operaismo italiano (alcuni inserti riguardano il ‘68 in Italia) può limitare il capitale, si traduce, nella prassi di Godard, in un’insubordinazione rispetto alla capitalizzazione del cinema come modo di rappresentazione ideologico che assoggetta soggettivando. A questo livello, pur considerando le critiche dei situazionisti, il gesto godardiano, la sua politica dell’immagine (e della parola) non è già più una semplice immagine della politica, ma un’insorgenza, un’insubordinazione, un’indisciplina che ha da corrispondere a quella degli operai che in quei mesi avevano occupato le fabbriche e interrotto la macchina del capitale. Un limite alla capitalizzazione del cinema, alla trasparenza ideologica, al discorso e anche alla cultura – della società borghese. C’è sabotaggio e defezione. Anche se, confusamente, Debord è raccordato a Mao.
Nondimeno la forza del film è nel cortocircuito di fiction e documentario, nell’et che raccorda le immagini delle lotte francesi con una canzone di lotta italiana (Bandiera rossa) e in quel finale in cui il rosso spinge via il blu e che rinvia al Film-Tract n.: 1968 (1968) realizzato, in quei giorni, con il pittore della Figuration Narrative, Gérard Fromanger, amico di Foucault e critico della società dei consumi, pittore del rosso che si ispira ai fumetti e ai linguaggi pop, in cui la bandiera francese è investita dal rosso della rivoluzione.
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Poco prima e poco dopo Un film comme les autres, Godard lavora ad un altro film che non è come gli altri: La gai savoir. Un punto di svolta, la genesi delle sue Histoire(s) du Cinéma, un’altra fine del cinema, ma per ricominciare daccapo. Un film “situazionista”, è stato detto, ma che, non senza buone ragioni, è stato criticato dai situazionisti, anche perché Godard, nel film, non rinuncia all’elemento recitativo-narrativo incardinato nella presenza dei due personaggi.
Due personaggi, interpretati da Jean-Pierre Léaud e Juliet Berto, immersi in uno sfondo nero, fessurati, interrotti, moltiplicati da un collagismo esasperato che assembla Beatles, Cuba, lotte operaie in Europa. Una pedagogia politica, come alluso già dai nomi dei personaggi: Rousseau e Lumumba. Il primo pubblica il suo Emilio nel 1762. La società è corrotta, per plasmare l’uomo nuovo, occorre plasmare la società, a cominciare dall’educazione, allestendo un dispositivo in cui il soggetto cresca, sentendosi libero e sviluppando le proprie attitudini, anche se il dispositivo, in qualche modo, è pur sempre allestito dall’educatore. Lumumba, invece, muore assassinato nel 1960, e tutta la vita si era battuto per l’indipendenza. L’autonomia operaia implica la conquista dall’indipendenza dalla catena significante dell’ambiente audio-visivo.
La pedagogia politica di La gai savoir è un manuale filosofico, politico e narrativo per innalzare la questione dell’educazione. Un nuovo sapere per classe operaia, un sapere per fare e per comprendere ciò che si fa, un sapere per comprendere le immagini e i suoni, l’ambiente audio-visivo che sempre più contrassegna la società dei consumi, quella in cui è irretito l’operaio e che lo studente, a volte confusamente, prova a contestare.
Ancora una volta, la posta in gioco è l’audio-visione, il rapporto dialettico e conflittuale tra parola e immagine. Interruzioni, salti, discontinuità, disarticolazioni, urla improvvise, primarie, rigano e spezzano l’accordo secondario tra parola e immagine, la loro coesistenza pacifica, il loro compromesso storico.
Il mondo è fabbricato attraverso le immagini: la lotta politica passa attraverso la comprensione della fabbricazione dell’immagine e del sabotaggio di tale fabbricazione. Le gai savoir è un lavoro sul campo teorico-politico per capire chi parla nell’immagine e a chi parla. La pedagogia politica non si articola tanto attraverso i “contenuti” o i “messaggi” o gli “slogan”, spesso anche contestabili, come quelli che si richiamano a Castro o a Mao, ma, quanto attraverso l’interferenza che annichilisce lo scambio, anzitutto tra parola e immagine, cioè la trasmissione di informazioni formazioni deformazioni. Informazione fa rima con repressione. In Le gai savoir non c’è scambio, informazione, anzi i loro circuiti sono sabotati.
L’armamentario di Le gai savoir, fotomontaggio, riprese in studio, immagini-testo e scritte a mano, fumetti (il cui uso artistico-politico fu introdotto dai situazionisti), sottolinea che l’immagine non è mai autonoma, nemmeno la fotografia, come aveva già spiegato Walter Benjamin, né che la parola debba servire da ancoraggio all’immagine, come osservato da Roland Barthes27. Il compito di Le gai savoir è, in particolare attraverso il fotomontaggio, rimettere in moto la contraddizione dell’immagine, rendere instabile l’immagine, quella che poi interpella i soggetti tutti i giorni, assoggettandoli al suo comando, alla sua violenza. L’assemblaggio di immagine e testo, da un lato riga l’interpellazione della sola immagine impiegando il testo come relais piuttosto che come anchorage, dall’altro letteralizza il rapporto tra il linguaggio della pubblicità e il soggetto ridotto a consumatore indebitato con le immagini. Benjamin, nella sua storia della fotografia, osservava che le immagini fotografiche avevano un effetto di choc sull’osservatore che bloccava «il meccanismo dell’associazione»28. Il fotomontaggio di Le gai savoir e di altri film militanti del periodo, ha la funzione di far entrare il senso nell’immagine della realtà e nella realtà dell’immagine, un innesco di libere associazioni. Già Aragon – che aveva elogiato il collagismo di Godard – sottolineava come questo atto – far significare le immagini – fosse eminentemente politico29. Il fotomontaggio dei surrealisti, infatti, era caratterizzato dalla peculiarità di marcare le spaziature, mostrando, come fa Godard, la contaminazione della realtà sociale radicalmente plasmata dalle immagini, anzi come la realtà sia percepita in quanto rappresentazione. I surrealisti, come Godard e i filmmakers strutturali nordamericani, mostravano i buchi, gli spazi bianchi, «le condizioni formali preliminari all’esistenza del segno»30, decostruendo sia lo choc a cui espone la sola immagine sia la supposta trasparenza della narrazione cinematografica. Godard riga l’immagine, marca la spaziatura, mostra il lavoro filmico interrompendo l’incantamento-incatenamento dello spettatore che si identifica nella macchina da presa e nel personaggio, interrompendo la catena significante dell’immaginario e del simbolico cinematografico, il continuum dell’ambiente audio-visivo. Il suo cinema già dagli inizi, con il ricorso allo straniamento brechtiano, e soprattutto nel periodo militante degli anni ’68-’72, si configura sempre più come un cinema della spaziatura. «La spaziatura è il segnale di una spaccatura nell’esperienza istantanea del reale»31. Una rottura che produce una nuova sequenza, quel preludio teorizzato e praticato dai situazionisti, i quali non lo vedevano all’opera nell’uso del détournement che faceva Godard, ma che comunque, fermo restando l’occlusione determinata dal pregiudizio maoista e terzomondista, era in qualche modo già operante in film come Le gai savoir e British Sounds (1969, Groupe Dziga Vertov).
Le gai savoir è un’indagine severa, e capricciosa, ma preliminare e propedeutica, sul ruolo del denaro nella rappresentazione e sul ruolo della rappresentazione tout court. Un’indagine che cerca di farla finita con il linguaggio della rappresentazione, che prova a non condividere il medesimo linguaggio. Anche se, come dicevano i situazionisti, Godard non rompe del tutto con l’elemento narrativo, una narrazione figurativa e a volte anche astratta, fatta di materiali eterogenei, in un film che, a quell’altezza, era forse il più sperimentale di Godard.
La pedagogia di La gai savoir mettendo in moto l’immagine mette in guardia dal pensare che l’immagine sia univoca, una cosa sola, come un ordine. È invece una costellazione, rimanda ad altro da sé. L’immagine che presenta non è quella che rappresenta, come la lotta non è lo spettacolo della lotta. L’immagine di un milionario gaudente non è solo l’immagine di un milionario gaudente o un’immagine fra le altre, né un’immagine che rimanda a quel preciso milionario, ma anche un’immagine che rimanda ad altri milionari e a molti che invece soffrono la povertà e a quegli altri che sono sfruttati per garantire quella ricchezza.
In sintesi, l’immagine-testo-suono La gai savoir è una critica dell’economia politica dell’immagine, in cui il lato pratico è più avanzato di quello teorico. Il film sabota il cinema, ma il détournement godardiano, effettivamente, è solo distruttivo più che costruttivo, poiché i nuovi contesti non possono essere il terzomondismo o il maoismo. È l’aspetto più arretrato del film che raccorda Debord e Mao, quando, come detto, i situazionisti già da molti anni avevano rivelato la natura burocratico-militare della Repubblica cinese. Quello più avanzato invece mostra come il tornado bianco della pubblicità spazzi via tutto quanto per affermare ovunque la sua koiné che impone su tutto il mondo l’imperialismo della mercificazione della donna e la narrazione del progresso tecnologico. È il trionfo dello spettacolo.
Ma Le gai savoir, pur citando La società dello spettacolo di Debord, non coglie fino in fondo il radicalismo teorico e pratico dei situazionisti e presuppone ancora una concezione della rappresentazione. La conoscenza delle immagini e del loro modo di fabbricazione è infatti preliminare alla corretta rappresentazione della coscienza di classe. Una rappresentazione che spettralizza, separa soggetto e oggetto, trasforma il primo in un possessore e il secondo in un fondo manipolabile, che teoricamente Debord aveva smantellato nel suo libro e che Godard decostruisce praticamente nei suoi film, perfino in quelli del primo periodo. La pratica di Godard era più avanzata della sua teoria.
Fumetti, linguaggi popolari, vedettes, immagini che costellano la società dei consumi, sono gli oggetti (spettralizzati) graffiati e dirottati in One Plus One, il film inglese di d, travagliato, con due edizioni, una aggiustata dai giovani produttori – di cui uno fu preso a pugni da Godard – mentre l’altra è quella di Godard, in cui non si sente mai per intero Simpathy for the Evil dei Rolling Stones. Per molti, infatti, questo è il film “sui” Rolling Stones. Il linguaggio che tradisce già la sua miseria. Come direbbe Deleuze32, quando si riflette “su”, piuttosto che creare qualcosa di nuovo, è perché si preferisce perpetuare l’istituzione, riflettendo su di essa, magari per criticarla spettacolarmente, piuttosto che produrre del movimento. One Plus One invece è un film in cui Godard approfondisce teoricamente i temi di La gai savoir e, già dal titolo, produce movimento, addiziona senza sommare o accumulare: è lo spettacolo che accumula immagini – tra queste quella dei Rolling Stones. A Godard interessa il movimento, il tra le immagini e i suoni, tra gli spazi del film fra loro sconnessi (lo studio, le strade di Londra, il cimitero delle auto, la spiaggia/set), vicini ma lontani, come in uno spazio di Riemann, lo spazio del cinema moderno33.
La produzione di valore, il valore dei dischi dei Rolling Stones, come aveva intuito Adam Smith, a dispetto dei suoi mascheramenti ideologici, dipende dalla divisione del lavoro che Godard mostra ampiamente, da diversi punti di vista, con panoramiche semicircolari, muovendo la macchina da presa nello studio di registrazione in cui gli Stones sono separati anche da pareti divisorie e ciascuno sembra avere la sua parte, la sua fetta di lavoro. Quel lavoro su cui insiste, più scopertamente, David Ricardo. Il processo lavorativo degli Stones, la loro passione, le loro competenze, producono dei valori d’uso, suscitando le passioni altrui, scatenando le passioni dei giovani degli anni Sessanta, ma è anche un processo di valorizzazione che produce valori di scambio, astrazioni, fantasmi, immagini. I giovani consumavano sia la passione della musica degli Stones sia la loro immagine.
Godard riconduce gli Stones, la loro immagine, il loro valore, al lavoro, perfino alla serialità e alla routine del lavoro – nello studio non compaiono bottiglie di whisky e groupie e anche Keith Richards è assolutamente professionale. Non si tratta tanto di smitizzare o ridimensionare il mito dei Rolling Stones, ma di mostrare il lavoro come fonte di produzione del valore. Ricondurre le immagini al lavoro, è questo il lavoro politico di One Plus One. E il lavoro politico del film è la sua traduzione in immagini – e parole.
Il lavoro politico del film consiste nel dis-occupare il territorio. Espropriare per riappropriarsi delle strade, dei marciapiedi, dei muri della città, rigando, strappando, pasticciando, détournando la segnaletica sociale e dei suoi messaggi e della sua pubblicità con cui la civilizzazione borghese tutti i giorni interpella i soggetti assoggettandoli nel piacere dopato degli occhi. Godard spinge a fondo la dissociazione immagine/suono, radicalizza le interruzioni della catena significante del capitale, così come interrompe l’esecuzione della canzone degli Stones e la continuità fra gli spazi e gli episodi del film.
Un film impossibile, in cui la democrazia è, nel lungo pianosequenza del bosco, ridicolizzata nella sua ipocrita tolleranza lasseiz faire, e, nell’episodio del negozio di fumetti e riviste porno, criticata in quanto continuazione con altri mezzi del progetto nazista. È il cuore nero dell’Occidente, in cui convivono la mercificazione del corpo femminile e la fumettistica nazista, inquisito anni dopo anche da Giorgio Agamben nel suo Homo sacer34, in cui è analizzato come le tecniche individualizzanti e le procedure totalizzanti si intersechino e come le società postdemocratiche spettacolari convergano sempre più con gli stati totalitari: totalitarismo e società dei consumi politicizzano la nuda vita.
Un film impossibile perché continuamente interrotto: non c’è più scambio (consumo spettatoriale). Il dispositif come network strategico di elementi (capitale dei produttori, macchina da presa, prospettiva quattrocentesca, sala, buio, proiezione, ecc.) è depennato in favore di un agencement deleuzeano. One Plus One è un concatenamento: gli spazi non sono raccordati, il loro modo di stare insieme lascia questi nella loro singolarità: un rapporto senza rapporto. Un modo di tagliare e comporre, senza annullarlo, il caos.
In One Plus One il movimento non è mai semplicemente accompagnato. La gru del finale, che dovrebbe accompagnare i movimenti, non è mai stata impiegata nel film, è mostrata nel finale, sulla spiaggia/set in cui si scatena la corsa e la guerriglia: One Plus One è il movimento. Gli Stones, Eva Democracy (interpretata da Anne Wiazemsky), i militanti di colore ispirati dalle Black Panthers, sono tutti intercessori, come direbbe Deleuze, una continuazione, sempre con altri mezzi, del dialogismo batchiniano del Godard del primo periodo, del suo uso del discorso libero indiretto. Discorsi a più voci, che deterritorializzano e riterritorializzano incessantemente il territorio, la città, la posta in gioco dei conflitti.
Il movimento di One Plus One è, parafrasando Deleuze che commenta Foucault, anzitutto lo sforzo di Godard di abbandonare tutto l’archivio, il disegno di ciò che è ed è stato, un autore di cinema e un critico cinematografico – l’addio al linguaggio (l’archivio della storia del cinema, dei suoi codici, dei suoi stile, delle sue leggi di produzione, distribuzione e scambio) di cui abbiamo parlato – per abbozzare il suo attuale, ciò che sta diventando: un operaio della macchina da presa, per aprire un tempo nuovo, un intempestivo, in quell’intempestivo che è il ’6835.
Toni D’Angela
1 http://debordements.fr/pdf/cinema_politique_3_tables_rondes-V2.pdf
2 Clement Greenberg, “Avant-Garde and Kitsch”, in Clement Greenberg. Le avventure del modernismo, Johan & Levi, Milano 2011; Clement Greenberg, “Verso un più nuovo Laocoonte”, in Clement Greenberg, Le avventure del modernismo, cit.
3 Cfr. Stanley Cavell, The World Viewed. Reflections on the Ontology of Film, Harvard University Press, Cambridge 1979.
4 Cfr. Paul Sharits, “Words per Page”, Afterimage, n. 4, 1972, http://mikehoolboom.com/?p=39#essay_453
5 Manfredo Tafuri, La sfera e il labirinto. Avanguardie e architetture da Piranesi agli anni ’70, Einaudi, Torino, 1980.
6 Cfr. Si veda il documentato libro di Paul Grant, Cinéma Militant. Political Filmmaking & May 1968, Wallflower Press, London & New York 2016.
7 Cfr. Ivi, pp. 35-52
8 Cfr. Ivi, pp. 119-121.
9 Cfr. Sally Shafto, Zanzibar: Les films Zanzibar et les dandys de mai 1968, Paris expérimental, Paris 2006.
10 Karl Marx, Introduzione a “Per la critica dell’economia politica”, in Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 171.
11 Ivi, p. 174.
12 Michael Fried, “How Modernist Works: A Response to T. J. Clark”, Critical Inquiry, n. 9, 1982.
13 Cfr. Stanley Cavell, The World Viewed, cit.; Stanley Cavell, Must We Mean What We Say. A Book of Essays, Cambridge University Press, Cambridge 2002.
14 Cfr. Jean-Louis Baudry, L’effet cinéma, Albatros, Paris 1978; Nöel Burch, Il lucernario dell’infinito. Nascita del linguaggio cinematografico, Milano, Il Castoro, 2001; per una ricostruzione sintetica di questi temi teorici: Toni D’Angela, “Movimento, percezione e dispositivo nella teoria cinematografica francese (Parte prima)”, La Furia Umana, 18, 2013, http://www.lafuriaumana.it/index.php/40-archive/lfu-18/71-toni-d-angela-movimento-percezione-e-dispositivo-nella-teoria-cinematografica-francese-parte-prima#sdfootnote54sym
15 Noël Burch ha dedicato uno studio autorevole, documentato e rigoroso alla domanda: il sistema di rappresentazione hollywoodiano è stato (o è ancora) un sistema la cui funzione è stato (o è) quella di fuorviare e anestetizzare le masse degli spettatori. Mostrando come il “linguaggio” cinematografico non sia mai stato affatto naturale, eterno, ma storico, un prodotto della Storia, un Modo di Rappresentazione Istituzionale (M.R.I.), costituito fra il 1895 e il 1929, che ha modellato una competenza di lettura che tutti noi abbiamo assimilato e codificato. Una storia radicata nell’Occidente capitalista e nella concezione proprietaria dello spazio di cui aveva già parlato Pierre Francastel. Cfr. Nöel Burch, Il lucernario dell’infinito. Nascita del linguaggio cinematografic, cit.; Pierre Francastel, Studi di sociologia dell’arte, Milano, Rizzoli, 1976.
16 Karl Marx, Introduzione a “Per la critica dell’economia politica”, cit., p. 172.
17 Cfr. “Il ruolo di Godard”, in Internazionale situazionista, n. 10, marzo 1966, p. 59; trad. it. Nautilus, Torino 1994.
18 Cfr. Daniel Blanchard, “Socialisme ou Barbarie. Prospettiva rivoluzionaria e modernità”, in Pier Paolo Poggio (a cura di), L’altro Novecento. Comunismo eretico e pensiero critico, Vol. II (“Il sistema e i movimenti. Europa 1945-1989”), Jaca Book, Milano 2011.
19 Cfr. “Amara vittoria del surrealismo”, in Internazionale situazionista, n. 1, 1958, p. 3; trad. it. cit.
20 Cfr. “Il senso del deperimento dell’arte”, in Internazionale situazionista, n. 3. 1959; trad. it. cit.
21 Ivi, p. 8.
22 René Vienet: “I situazionisti e le nuove forme d’azione contro la politica e l’arte”, in Internazionale situazionista, n. 11, 1967; trad. it. Cit.
23 Guy Debord, “Il détournement come negazione e come preludio”, in Internazionale situazionista, n. 3, 1962, p. 3; trad. it. cit.
24 “L’inizio di un’epoca”, in Internazionale situazionista, n. 12, 1969; trad. it. cit.
25 Gilles Deleuze, “Controllo e divenire” (Conversazione con Toni Negri), in Gilles Deleuze, Pourparler, Quodlibet, Macerata 2000, pp. 224-225.
26 Le dissociazioni tra parola e immagine producono accumulazioni e intensità secondo Sontag. Cfr. Susan Sontag, “On Godard’s Vivre sa vie”, Moviegoer, n. 2, 1964; Susan Sontag, “Vivre sa vie di Godard”, in Susan Sontag, Contro l’interpretazione, Mondadori, Milano 1998.
27 Cfr. Roland Barthes, “Retorica dell’immagine”, in Roland Barthes, L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino 1988.
28 Cfr. Walter Benjamin, “Breve storia della fotografia”, in Walter Benjamin, Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, Einaudi, Torino 2012, p. 244.
29Cfr. Rosalind Krauss, “Le condizioni fotografiche del surrealismo”, in Rosalind Krauss, L’originalità dell’avanguardia e altri miti modernisti, cit., p. 113.
30 Ivi, p. 118.
31 Ivi, p. 127.
32 Cfr. Gilles Deleuze, “Gli intercessori”, in Gilles Deleuze, Pourparler, cit., p. 162.
33 Cfr. Ivi, p. 165.
34 Cfr. Giorgio Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995 (in particolare l’“Introduzione”).
35 Cfr. Gilles Deleuze, “Che cos’è un dispositivo?”, in Gilles Deleuze, Divenire molteplice. Nietzsche, Foucault e altri intercessori, ombre corte, Verona 1999.