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Panic in the Streets o della narrazione intensiva

Panic in the Streets o della narrazione intensiva

Panic in the Streets marque une modification profonde dans le style de Kazan. Si je dis ‘modification’ c’est aussi parce que le roman de Michel Butor qui porte ce nom s’addresse à son lecteur à la seconde personne du pluriel : ‘Vous faites ceci et cela…’. Si Kazan, lui, utilise le ‘tu’ familier et volontiers brutal, c’est bien sûr de façon moins systématique et d’ailleurs moins lisible, qui demande un minimum d’explication. Ce que j’appelle plus ou moins arbitrairement (mais que serat un autéur s’il n’avait sono libre arbitraire ?) le ‘tu’ dans l’oeuvre de Kazan, est cette zone violente comprise entre la partie ‘il’ que je viens de décrire, où le réalisateur tout à la fois apprend son métier, mesure les contraines du systéme hollywoodien et ronge son frein, et le ‘je’ de l’expression complètement dominée, serait-ce d’abord sur le plan de la production, dont on ne saurait trop souligner l’importance. (…) Une intensitè nouvelle parcourt les acteurs de Kazan, due d’abord au stanislavskisme rénové qui, depuis deux ou trois ans, les maintient au Studio en état de ‘veille’ perpétuelle, due également au climat créateur d’émulation qui règne sur le plateau, et à la confiance accrue de Kazan en ses pouvoirs conjugués”.

 Roger Tailleur, Elia Kazan (1966)

Gesti, posture e comportamenti soprattutto nei primi film degli anni Cinquanta e in quelli più maturi: le mani attorcigliate disperatamente alla fune di Jack Palance in Panic in the Streets (1950); le dita unte di pollo, il sudore e la schiena nuda di Brando in A Streetcar Named Desire (1951).

Questi gesti e situazioni, un tempo – cioè nel cinema classico e organico fondato sulla schema senso-motorio – erano quasi privi di importanza, mentre nel cinema di comportamenti di Elia Kazan cominciano a dispiegarsi più liberamente con il carrello in avanti e in en plein air di Panic in the Street, in cui non mancano quelle cose di poco conto che scandalizzavano il giovane Socrate che dialogava con il venerando e temibile Parmenide: i sudori e la sporcizia. Anche Kazan ha da affrontare le colonne altrettanto minacciose del classicismo che tendeva a dissimulare quantomeno certi comportamenti e non far sentire né la macchina da presa né un certo nervosismo della narrazione. 

Welles, Kazan, Losey e Ray sono i cineasti americani che più di altri mettono in fibrillazione e infine oltrepassano il classicismo hollywoodiano e tutti loro sono stati registi teatrali. Nella conversazione con Michel Ciment, Losey ricorda che Kazan ebbe molto successo come regista teatrale, successo commerciale, mentre lui e Welles negli anni Trenta ebbero meno successo e meno risorse. Come Welles, Losey è alquanto tagliente, anche se implicitamente, su Kazan. Più simpatetico il rapporto con Ray. Quest’ultimo scrisse spettacoli e recitò per Kazan partecipando anche alla realizzazione del primo lungometraggio di Kazan. Con Kazan, Ray ha in comune alcuni temi e figure come l’amore per i giovani, lo scontro generazionale, la casa, una narrazione che diviene via via più libera. Ma l’astrazione lirica che, secondo Deleuze, Ray raggiunge con i film più maturi, quando i suoi personaggi conquistano un certo livello di serenità lirica, non appartiene a Kazan che, anzi, con il passare degli anni diventa sempre più disorganico e pulsionale. Soprattutto a partire da Panic in the Streets.

New Orleans, la strada notturna e lucida, il jazz, i bassifondi, il gioco d’azzardo, il sudore e i muri sberciati. E poi la silhouette nera di Jack Palance e quella grassa di Zero Mostel. Per Tailleur questo film segna il passaggio dal “noi” al “tu” e ad una nuova e più brutale intensità con cui il regista dialoga con il pubblico, lo spinge a schiodarsi dall’atavica passività. Kazan, osserva Tailleur, insiste molto sul comportamento dei suoi attori: l’obesità di Mostel e l’ossatura spigolosa di Palance. Tutta questa corporalità si spigionerà ancor di più nel primo film con Marlon Brando.

Le riprese in esterni di Panic in the Streets – con Richard Widmark che Kazan aveva diretto in teatro cinque anni prima – in effetti conferiscono un taglio intensivo, introducono un gradiente che fa salire la temperatura e innesca l’emozione che segna, riga e ferisce. È il contrassegno di Kazan che porta la peste a Hollywood. Dissolvenze in nero che staccano e incrociate che danno ritmo e raccordano spazi e momenti, campi lunghi scenografici e pianisequenza sdoganati da Welles.

Il bar con con il muro rovinato – quasi un dipinto informale – affollato di derelitti. Migranti, neri ed emarginati. Lo sfondo sempre popolato – come le inquadrature affollate di On the Waterfront (1954) e più tardi di America America (1963) – anche di rifiuti, le inquadrature scattanti. È un film dalla narrazione febbrile: la febbre è nel corpo dei personaggi e nel ritmo. Film di corpi e ritmi. Sudori, violenze, il corpo lanciato giù dalle scale, l’inseguimento per strada, Zero Mostel sfinito, lo spazio legnoso corroso dal sale sotto il molo, la corda anch’essa umida di sale a cui si appende disperatamente Palance: sentiamo anche noi le mani bruciare. Come sentiremo le mani di Lee Remick stringere il tessuto della tenda come fosse il corpo di Montgomery Clift in Wild River (1960). 

Kazan in Panic in the Streets già raffigura quel mondo del lavoro che, nei suoi spazi umidi e scivolosi, pesa, schiaccia, un’architettonica dell’orrore quotidiano che raramente si era vista e sentita almeno nel cinema americano, il cinema classico americano. 

Narrazione di un’azione che è sempre più crisi dell’azione e sempre più emozione. L’inquadratura “rumorosa” del caseggiato popolare con i panni stesi sui fili di Boomergang (1947) in Panic in the Streets ha un altro gradiente intensivo ed è come appestata dalla febbre di una narrazione sempre più emozionante che si surriscalderà ancor di più in A Streetcar Named Desire (1951).

Toni D’Angela