“…la notte del mondo va pensata come un destino che si eventua
al di là dell’alternativa tra pessimismo e ottimismo”
M. Heidegger, A che poeti
Hemingway et Dick, il western et la meccanica quantistica, epico, più che classico addirittura greco nella tonalità, nell’attitudine et forsennatamente postmoderno nel pastiche schizofrenico e paranoico, nei tagli ellittici, nell’intreccio già da sempre, ontologicamente, disfatto. Un’inquisizione abissale heideggeriana et un complotto kafkiano-wellesiano.
Il passeggero siamo noi, ma anche lui, lui chi? Non solo Bobby Western o lo sconosciuto mancante – che sempre manca, sempre ci manca quello sconosciuto che siamo. Ma anche lui, sì, lo scrittore, Cormac McCarthy, un po’ Seneca e un po’ Pynchon. Questa volta la polvere che si mastica, che impasta la bocca, che si infila tra le fessure dei denti non è quella di uno scenario western o roccioso, ma è la Roccia, la Pietra, la polvere del mondo e delle sue età. Forse la polvere cosmica.
Il passeggero, Bobby Western (il destino è scritto nel nome), noi, McCarthy, supera le paure? No. Eppure si inabissa, schiantandosi o per assolvere a un contratto – quello del sommozzatore e pure dello scrittore. Tutti i giorni sprofondiamo in questa oscurità che non afferriamo. L’oscurità, l’oscuro, questo freddo che pietrifica, raggela, come quando ci si inabissa. Quante volte ricorre nel romanzo? Ricorsivamente, quasi un refrain, forse il ritmo stesso ma non del romanzo, bensì di quella polvere cosmica, oscura. Ma si deve pur giocare, come in Hemingway – o in un western di Sam Peckinpah.
Fa freddo. E raccontare può non bastare. Si può raccontare? Si racconta questo romanzo? Può avere senso tutto questo, certo, ma anche no. Si sa quel che non si vuole e si vuole quello che non si sa. È il guaio, che quel guaio che ci tocca vivere. Fa freddo in questa notte chiamata guaio, non ci si raccapezza. Si abita questa notte che è più vecchia di quel che si crede. La si ascolta? Forse. Si sente qualcosa, quel “martello sordo del battipalo in lontananza”, un battito che dà la misura? “La misura”. I tempi di indigenza di Hölderlin, leggendo questa notte fredda e polverosa, questo schianto nel nulla, non appaiono tempi eccezionali o di crisi ma il tempo stesso. Che misura se ne può dare?
Non è questione di tecnica – letteraria. Si può dare una linea. Non è quella di Raffaello? Ma nemmeno di Cézanne, Matisse o Klee. “La prima cosa da fare è individuare la linea narrativa”. Proviamoci. A tutti noi piacere raccontare e raccontarci. Bruner dixit. Raccogliamo e assembliamo i materiali sparsi. Giriamo e rigiriamola pure. Ma se il passeggero è “un viaggiatore esperto” non può non sapere che “la meta è al massimo un sentito dire”. Dire è ri-dire. Tracciamola la linea, d’altronde è quello che si fa, piaccia o meno. Come quel bambino che si tiene in braccio. Perfino lui guarda avanti, linearizza, traccia una linea. Una linea nel deserto? Ancora il deserto. La linea di Walter de Maria, un viaggio tracciato ma verso dove? Forse conta solo il tracciare. Come lo zip di Barnett Newman, un fulmine che divide – il nulla da? Dal gioco, dalla narrazione… Lyotard osserva che i quadri di Newman sono esclamazioni, sorprese, cioè non c’è alcun racconto da consumare, il quadro eccede qualunque presa: è sublime. Il “soggetto”, il messaggio è il medium, il quadro stesso. Un inizio assoluto, ovvero contingente, quello che ci è dato. I suoi fulmini spaccano la tela, aprono, sono una catastrofe che origina un mondo – senza fondamento né finalità. Forme senza forma, informi, che debordano i limiti della specificità del medium. Non sono quadri che raccontano o raffigurano un evento, che rassicurano. Un fulmine che spezza le tenebre e suscita un piacere negativo, quello del sublime, descritto da Burke. La notte del silenzio che mette in crisi il linguaggio della narrazione, la parola. Il fulmine di Newman, lo zip, è la creazione, il gesto isolato dalla cornice e dai suoi bordi, da qualunque narrazione e temporalità. Questo The Passenger è uno zip, è spaventosamente sublime.
Tracciare linee, raccontare, tanto si va comunque. Eppure ci affanniamo a cercare regole e poiché le cerchiamo, certo, le troviamo “Tu credi che esistano regole a proposito di chi è autorizzato a viaggiare in bus e chi è autorizzato a essere qui e chi là”. Ma il guaio, quello che ci tocca vivere, è che “ogni linea è una linea spezzata”. E cosa chiedere, allora, allo scrittore? Una linea? Che, magari, non sia nemmeno spezzata? The Passenger non solo è una costellazione di linee spezzate, anche nella composizione, nei salti temporali e nei dislivelli tra i registri e le “voci”, ma è un baratro. “Ogni passo incrocia la morte”, ogni parola, ogni sequenza, ogni ellissi incrocia e, insieme, annoda il baratro. Forse è per questo che i bambini di Kokoschka hanno già la morte negli occhi? L’altra faccia della luna, come scriveva Rilke. Lo specchio non solo è diventato opaco, anzi infestato, come nel modernista Giro di vite di Henry James, è ormai appannato, oscuro. Oscuro! I riflessi “viaggiano alla velocità della luce”. Scrutare nello specchio è oscuro, pericoloso, gli specchi “ti sbirciano di rimando”. Cerchi matematicamente o tautologicamente la materia, ma si scatena l’infermo. L’oscurità incombe. Di questa oscurità aveva paura Einstein, forse temeva ancor più questa di quella della bomba. L’oscurità dell’indeterminazione – della meta del passeggero, ma poi chi è il passeggero?
L’unica cosa certa, che chi cerca scopre, sulla verità del mondo, è che il mondo “non è fatto di mondo”. E questo mondo che non è fatto di mondo “si prenderà la tua vita”. Forse questo, solo questo si può capire. Ma lo si vuole capire? Capirlo può oscurare l’anima. Se è così, allora la materia, la materia della vita, il “fondamento” è cordoglio, quando non è rimorso. Fa freddo, siamo impalati a un bivio. Ritrovare o dimenticare?
Nonostante le speculazioni e le spedizioni, sbandiamo verso l’oscurità, sospesi tra il tempo e la sua percezione, un altro baratro. Tempo che non è la storia e questa poi è quella dell’atomica o del Vietnam, un complotto paranoico. Baratro delle divaricazioni, baratro schizofrenico.
Oscurità, silenzio gelido. Ma in questo silenzio ci si muove, con o senza meccanica quantistica. La notte si fa sempre più fredda, sempre più silenziosa, si scivola da un flashback a forse un flashforward, si salta da una pozza all’altra. Tenebre, ancora tenebre. Farfugliamo noi passeggeri in questo crogiuolo oscuro. Con il rischio che a non farci male sia solo proprio la morte.
Ce ne andiamo a spasso schermati, proiettati gli uni negli schermi degli altri. Silenzio. Siamo nella tempesta, risucchiati nelle tenebre ci appoggiamo a una paratia. Interferenze, come quelle che costellano il romanzo. Ronzii, pedinamenti, appostamenti, misteri. Dopo tutto, almeno a volte, è anche una “dolce oscurità”. Siamo gettati a capofitto, coliamo a picco nella “profondità” di quell’“inconcepibile oscurità”. Non siamo noi ad attraversare i giorni ma sono loro ad attraversare noi e ci pare di ammucchiare pietre per le tragedie a venire. Ma “peggio di perdere c’è solo il non giocare”. Si ha da giocare, si ha da scrivere. Anche se è solo “uno sterminio di fottuti misteri” e ci aggrappiamo ai relitti. Forse non scopriremo mai la “vera natura delle tenebre” ma queste pulsano. Probabilmente è solo una zuppa primigenia, un calderone arbitrario e immotivato – un modello più idraulico che elettrico – in cui si agitano balene e calamari. Guardare l’orologio nell’oscurità non ci fa vedere l’ora. Ma siamo passeggeri, siamo imbarcati. A volte nemmeno guardiamo il biglietto. Non si afferra l’oscurità, non si può sapere. Il mondo è questa perdita, questa cenere. “Non mi importa come andrà a finire. Mi importa solo l’adesso”.
Le equazioni non ci orientano nel viaggio. E nemmeno le storie. Si costruiscono, si raccontano. Tutti manufatti, come le equazioni. Non sono che lettere, polvere. “Ma il cuore del racconto non è questo. Il problema è che il motore del racconto non gli sopravvivrà”. E si scivola. Nell’oscurità. Il cuore del racconto di McCarthy, della letteratura forse, è questo disastro, questa perdita. Ricominciare da capo, un nuovo romanzo, raccontare nuove vite, dirigersi verso altre vite. Nella stanza in cui McCarthy scrive il mondo si fa e si dissolve. Perché “il mondo non è mai stato tuo”. Disastro della scrittura. Ma solo spezzando le equazioni, come scrive Kristeva, si apre la significanza.
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Pietra su pietra, un mistero dopo l’altro, cenere dopo cenere. Perdere? Si perde. Ma aggrapparsi al relitto nella notte fredda e crudele? Nell’oscurità, tra interferenze e intermittenze. Perdere ma comunque camminare nella notte affondando gli stivali nella sabbia bagnata. E scrivere. Con amore. Sì, perché Il passeggero, per dirla con Heidegger, sostiene la morte, il mistero del dolore non resta velato. E finché resta velato, scriveva Heidegger, non si impara ad amare.
Dopo tutto la storia stessa è “collezione di carta”, cartapecora o pergamena. Se non si scrive quello che accade, accade davvero? La storia è parola. Anzi, diceria, se non menzogna. Postmoderno? Può darsi. Prima di Hayden White, già Sciascia: “il lavoro dello storico è tutto un imbroglio, un’impostura e che c’era più merito ad inventarla, la storia, che a trascriverla da vecchie carte, da antiche lapidi, da antichi sepolcri” (Il console d’Egitto). O già gli illuministi? Forse una salvezza nella scrittura dalla dannazione della storia, come in Consolo? La finzione che salva dalla “veritate della storia, il suo progredire lento e contrastato, il miscuglio d’animalità e di ragione, di tenebra e di luce, barbarie e civiltà” (Retablo)? Ma se proprio vogliamo richiamarci a qualche nostrano, il rimando dovrebbe andare a Leopardi – anzi, il Leopardi di Sebastiano Timpanaro. Ne La strada la disgregazione, la decomposizione, il ridursi all’osso era, in effetti, come un processo storico. Cenere, ma quella della storia. Camminare là, con amore, anche se disperatamente. Qui, c’è molta cenere, ma è quella del Tempo oscuro, dell’abisso profondo. Leopardi è materialista, per Timpanaro. E non solo nel senso che l’uomo è condizionato dalla storia, dalle circostanze sociali e così via, ma anzitutto dalla natura, dalla biologia, dalla fisiologia. L’infelicità ha una causa fisico-biologica, più che economico-sociale.
E, comunque, siamo in viaggio. Ruzzoliamo nella tempesta che lascia dietro di sé frammenti, non solo le rovine dell’Angelo della storia di Paul Klee commentato da Benjamin. E nella tempesta cerchiamo, noi passeggeri, di tracciare una rotta, ciascuno la propria. Ma la tempesta è eterna, immensa, nera. Nel grande capolavoro più “antico”, ciò che univa tutti i punti era un Meridiano di sangue, qui è un “improvviso meridiano di bianco”. Come un “sole infausto”. La bomba forse gli assomiglia. Ma poi anche in Meridiano di sangue, l’inferno è una cavità rocciosa e “la terra è un globo nel vuoto”
La fuga di Bobby Western, più cosmica rispetto al viaggio verso l’oceano di padre e figlio in La strada, è fuga dalle profondità infernali e gelide, da quella notte in cui nasce la vita stessa. La cenere, qui, è la polvere in quanto orizzonte comune e atteso. La perdita. E allora?
Judith Butler, proprio nei mesi in cui McCarthy pubblicava Il passeggero, scriveva della perdita, in questo caso la causa è economico-sociale, il nome che causa la perdita è: capitalismo. Butler richiama alla response-ability performativa, alla condivisione di uno spazio comune in cui si afferma la coabitazione con tutti ciò che è nonumano. Ma l’idea della perdita nel romanzo di McCarthy è fisico-biologica. Sussume tutte le perdite, anche quella delle specie, degli eco-sistemi, delle nostre felicità ridotte in brandelli da una società in cui il lavoro non ha mai fine. La perdita è definitiva. Eppure il viaggiatore cerca, noi cerchiamo. “E la realtà che indaghiamo deve prima di tutto contenerci”. Lacan direbbe che il reale è fuori della simbolizzazione, “già c’è”, è ciò che discorre da solo – il che non significa che soddisfi il soggetto. Ecco il punto di intersezione tra Butler e McCarthy. Comunque cerchiamo e ciò che cerchiamo anche ci contiene, questo pianeta, questa terra avvelenata, che “già c’è”. Bobby Western, questo passeggero che noi tutti siamo, incluso McCarthy, nella sua fuga-scrittura-simbolizzazione appartiene già da sempre a un oggetto assente per quel soggetto che è/siamo: la sorella, l’atomica, il mondo? Perdita d’oggetto, in termini kleiniani, che costituisce il soggetto, Bobby, noi, McCarthy. Melanie Klein ma anche Orson Welles. Kane e Quinlan hanno perduto qualcosa e ne cercano il surrogato: opere d’arte da collezionare o criminali da incastrare. Come notava finemente André Bazin, commentando Citizen Kane (1941), che serve conquistare il mondo se si è perduta l’infanzia? “Rosebud”, la slitta perduta, è l’inizio e la fine del film. La scrittura è incentrata su questa possibilità di perdita, la riconosce in quanto reale, ne è l’esperienza.
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Ecco perché McCarthy invita a viaggiar leggeri. Disincanto? Può essere. Oppure “umiltà militante”, come dice Butler, sgravandoci di quel peso che è l’antropocentrismo, per esempio. Infatti arranchiamo su ciottoli che sono quelli dell’universo. Non è McCarthy che, nel finale de La strada, scriveva dei salmerini di montagna? Che odoravano di muschio e i cui disegni tracciati sul dorso erano come “mappe del mondo in divenire”? Un mistero, ancora un mistero, ma più antico dell’uomo. E anche in Meridiano di sangue gli uomini scellerati sono guardati da colossi di pietra e dall’alto.
Perdere forse è ineluttabilmente doloroso, ma non giocare è anche peggio. E giocare è anche elaborare il lutto.
Viaggiamo leggeri in questa tempesta fredda e metallica. Dopo tutto si può sempre portare dentro questa oscurità, un po’ di bellezza. Anche quella della scrittura, delle parole che il figlio promette di parlare per ricordare il padre morto ne La strada. Della capacità di simbolizzazione, come direbbe Melanie Klein. “Perdere nell’amore”, per usare una bella formula di Julia Kristeva a proposito di Klein. Parlare e camminare, respirare e anche immergersi nelle acque oscure. Cantare in una lingua sconosciuta. Non siamo fatti di sola biologia. La parola – il gioco – circoscrive la perdita.
Toni D’Angela