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LUCA PELOSO / Staying with Words – Making Kin in the Hamlet(ocene). Intorno alla presenza di Shakespeare in Donna Haraway

LUCA PELOSO / Staying with Words – Making Kin in the Hamlet(ocene). Intorno alla presenza di Shakespeare in Donna Haraway

L’obiettivo è generare parentele – fare kin –

attraverso delle connessioni inventive.

– Donna Haraway, Chthulucene –

Sappiamo quello che siamo ma non 

sappiamo quello che possiamo essere

 – Ofelia, Amleto (IV.5, vv. 43-44) –

1. Il gesto è la parola. Le suture elementari della parentela (kin, kind)

Scrive Donna Haraway in Chthulucene:

Il mio intento è far sì che il «kin», la parentela, significhi qualcosa di diverso, qualcosa di più che entità legate alla stirpe o alla genealogia. […] Generare parentele significa generare persone, non necessariamente intese come individui o esseri umani. All’università rimasi colpita dal gioco di parole tra kin kind formulato da Shakespeare nell’ Amleto: le persone più kind, ovvero le persone più premurose, non erano necessariamente i membri della famiglia. Generare parentele – making kin – (intesi come categoria, cura, parentela senza legami, parentele altre e molte altre ripercussioni) sono processi che ampliano l’immaginazione e possono cambiare la storia. […] Allargare e ridefinire la parentela è un processo legittimato dal fatto che tutte le creature sono imparentate nel senso più profondo del termine […] Kin è un genere di parola che unisce. […] le parentele sono estranee (al di fuori di quella che credevamo essere la famiglia o la gens), inspiegabili, inquietanti, attive.[…] Perciò, generare parentele, non bambini! È importante il modo in cui le parentele generano altre parentele.[1]

Il passo chiamato in causa da Haraway si trova in I.2, vv. 4-5:

KING But now, my cousin Hamlet, and my son – 

HAMLET A little more than kin, and less than kind. 

Così traduce Nemi d’Agostino la risposta di Amleto: “un po’ più che congiunto, e men che caro”: Così Agostino Lombardo: “un po’ più che congiunto, e men che figlio”. Così Montale: “un po’ più che nipote, e men che figlio”. Claudia Durastanti traduce invece: “un po’ più che della stessa gente, e men che gentile”. In questo caso è quella di Durastanti la traduzione migliore, perché offrendo un equivalente italiano alla sovrapposizione grafica tra kin kind ne rispecchia il gioco sotteso di implicazioni e omologie. È, del resto, lo stesso impianto teorico del libro di Haraway che orienta la traduttrice in tal senso[2]. Dall’intreccio di questi quattro versi italiani si ottiene una matassa che una volta srotolata sembra presentarsi così: mi è caro colui che è gentile; perché l’arroganza allontana, cioè recide o slega, mentre le persone gentili avvicinano, e quindi legano o rinsaldano: nel quadro di un pianeta danneggiato, andare avanti e restare a contatto col problema implica un’opera di riparazione (quello che Haraway chiama recupero) che, nei rapporti umani, non può non tradursi a sua volta in un atteggiamento di cura per l’altro (il cui esito è quella che l’autrice chiama “intimità senza prossimità”[3], il cui orizzonte, nonché presupposto, è la solidarietà). 

In questo contesto, il fatto che le società umane, con tutto il loro corredo di leggi, costumi, usanze e tradizioni istituisca da sempre un rapporto privilegiato tra consanguinei non è che la testimonianza che da una qualche parte bisogna pur cominciare; ma come considerare questo dato, posto che la cifra-modello della contemporaneità non è più l’albero ma il rizoma, che non ha centri né vertici? Non più gerarchie, ma futurologie[4]. Su questo versante, la messa in discussione del patriarcato, dell’Antropos e di tutti i dualismi/binarismi che Haraway denuncia, prima ancora che essere una battaglia politica rappresenta una questione di buon senso: che farsene dei cascami del sedicente diritto naturale, i fenomeni del mondo contemporaneo risultano del tutto inafferrabili ai loro rigidi schematismi? Quello di Haraway è un piano d’immanenza che i fatti stessi reclamano; il fatto è che, a ben vedere, Amleto stesso – malgré lui – questo piano lo aveva intravisto e, seppur fugacemente, anche intersecato. Uno dei grandi temi della tragedia shakespeariana è infatti la messa in questione degli usi, che s’impongono in virtù della loro semplice esistenza e perpetuazione – cioè della loro forza d’inerzia: lo stesso verso ripreso da Haraway testimonia della natura trasgressiva del principe, il quale sin dall’inizio non intende piegarsi alla consuetudine per cui un uomo, una volta asceso al trono regale, acquisisce paternità su un erede che non ha alcuna voce in capitolo al riguardo: che fondamento potrà mai avere un simile “diritto”? Tutte le tirate amletiche sui costumi supinamente accettati vanno lette sulla scia di tale scetticismo, e ci riportano al paradosso al fondo della vita comunitaria per cui iscriversi al suo interno comporta, per il singolo, l’accettarne le convenzioni (linguaggio, moneta, etichetta, sistemi di parentela…), anche se ciò comporta per lui la negazione di se stesso proprio in quanto singolarità. Inoltre, dato per assodato che il principio di una forma di vita è l’auto-conservazione, tali convenzioni concorrono tutte allo scopo, sono tutte necessarie? Oppure alcune sono rinunciabili? Qui subentra l’assiologia: per cui a un certo si scopre che certi usi possono essere sacrificati. Ma chi eventualmente lo decide? La solita maggioranza, che crea norme sia attivamente (i legislatori con le loro leggi scritte) sia passivamente (i cittadini, col calmiere dedotto dalle loro pratiche quotidiane: leggi anch’esse, benché non scritte). Trasgredire la norma significa quindi – sempre – violare una convenzione:  e niente c’impedisce a priori di pensare che quelle che oggi paiono convenzioni irrinunciabili[5] è probabile che ai cittadini di domani sembreranno un’anticaglia liquidata dalla storia. Amleto è all’origine, “a monte” della ricognizione intorno alla legittimità dell’uso, la cui autorevolezza – tutta da dimostrare – è data dal semplice fatto che l’uso per definizione ci è noto (il che quasi mai vuol dire conosciuto): Haraway è “a valle” di questo processo, e lo dobbiamo a filosofi incatalogabili, ribelli e disperati come Amleto se la messa in questione dell’istituzione è potuta sfociare in seguito in una critica trascendentale, anziché respinta al mittente come operazione fine a se stessa[6]: senza il pionierismo di Amleto, nessun crepuscolo degli déi, nessuna incrinatura del grande impianto metafisico, delle cosmologie testamentarie, del misticismo del sangue. Amleto è il castoro che rosicchia le basi di una palafitta già scricchiolante (l’ordine giuridico medievale che è già in crisi da tempo); ma non ha ancora denti abbastanza buoni per farla crollare del tutto e far sì che il suo legno marcio si perda nei flutti della storia. Eppure, se Shakespeare si limitasse a drammatizzare e personificare l’idea di transizione tra antico e moderno, e se si limitasse a riproporre lo schema risalente all’ Antigone – che pure in Amleto è ben presente – delle ragioni del cuore contrapposte a quelle della legge, il suo sarebbe niente più che il geniale compendio di un’epoca.  Quel che viceversa ci interessa qui, e che incarna uno dei maggiori vertici umani del suo percorso artistico, risiede nel fatto che egli rilancia, col suo gioco linguistico intorno al binomio kin-kind, un’ambiguità che è costitutiva e interna alla condizione umana, qualcosa di più simile a una schisi che ad un’antinomia. Se infatti schiacciassimo kind sull’unico significato “gentile”, tutto consisterebbe infine nel raccogliere lo spunto di Haraway come un semplice, unilaterale invito a scegliere i nostri congiunti fra coloro che (per disposizione o affinità elettive) ci risultano più cari, e quindi più vicini a noi in quella lotta che è la vita, o se si preferisce – nella prospettiva di un testo militante come Chthulucene – nella sopravvivenza come risultante di una lotta per una vita qualitativamente intesa (cioè per una vita diversa). E tutto si fermerebbe qui. Il problema è che kind, oltre che “gentile”, comprende anche, nel suo significato, “rapporto naturale” – il che evidentemente giustifica le traduzioni di Lombardo e Montale che lo rendono con “figlio”. Ma allora cos’è natura, visto che si parla di un essere non stabilizzato (Gehlen, Nietzsche) come l’uomo? Shakespeare ci costringe a fare i conti con un’ambivalenza interna alla nostra condizione, per cui la scriminatura natura-cultura appare incerta e mobile, e di cui la lingua è segno, sintomo, persino specchio: se ad esempio non sussiste linguaggio privato (Wittgenstein), perché mai dovrebbe sussistere ugualmente la palese, eterna discrasia fra il significato letterale di una parola e il suo intendimento? Lo Spettro, ad esempio, dice ad Amleto, riferendosi alla necessità di reagire al suo assassinio: “se la natura è in te, non sopportarlo” (if thou nature in thee, bear it not, I.5, v. 81). Quale natura? Quella filiale, a quanto pare, cioè sentimentale, presumibilmente spontanea, quella che fa leva sull’amore incondizionato del figlio verso il padre; eppure questo stesso amore è ritenuto consustanziale a una pratica: “se mai amasti il tuo caro padre, vendica il suo turpe e mostruoso assassinio” (Revenge his foul and most unnatural murder, I.5, v. 24).Questa però non è natura, è cultura, perché già presuppone un modo d’intendere la figliolanza come vincolo e obbligo, che sono degli imperativi ma non degli impulsi incoercibili: sei mio figlio, ergovendicami! Fuori da un paradigma vetero-testamentario, questa logica sarebbe del tutto incomprensibile. Se adottiamo a questo punto la prospettiva di Haraway, dovremmo dire: per ora i percorsi che congiungono kin kind non sono ancora tentacolari, nella misura in cui contemplano un’ unica connessione possibile, quella che identifica kind con son: un rapporto biogenetico che ha un immediato, arbitrario, meccanico riflesso culturale. E per giunta sospetto, oltre che piuttosto antipatico, visto che questo Spettro non dialoga ma comanda. Come può Amleto amarlo? Eppure è del tutto evidente che non riesce a concepire se stesso senza il padre: di che genere di connessione dunque si tratta? Lo Spettro, per quel che vediamo, è da Amleto assecondato in tutto: una relazione che ha tutta l’aria di essere una dipendenza, una relazione a senso unico – cioè il contrario di una relazione. È pur vero che non sappiamo come fosse il rapporto genitore-figlio prima dell’inizio del dramma; ma questo riguarda il foregrounding[7], entrando nel quale ci troveremmo con tutti e due i piedi nelle sabbie mobili delle congetture. Inoltre non è implausibile pensare che questo padre non fosse poi così diverso anche prima, dato che Amleto lo vede, fantasma, esattamente com’era da vivo, vestito allo stesso modo e con uguali sembianze, barba brizzolata compresa. Il padre di Amleto, per quel che ne sappiamo, col figlio potrebbe non essere mai stato gentile, e perciò non vicino realmente perché caro (kind→kin), ma solo prossimo perché congiunto (kin→kind), secondo un “rapporto naturale” (kind/son)culturalmente prescritto dall’uso, quell’uso per cui il padre è un tale la cui prossimità è data normalmente – almeno in una certa fase, e per una durata significativa – dalla coabitazione fisica, che instaura un precedente e crea un vincolo per cui il figlio è tenuto a legarsi: a costituire cioè un rapporto col genitore (rapporto d’odio, d’amore, di paura o di rispetto, non è rilevante, il punto è che sussiste e quindi non è recidibile anche quando sfocia in un allontanamento). E qui abbiamo una prima commessura, al cui interno la perpetuazione della specie (natura) trova il suo punto di giunzione storico con la natura umana (cultura) nella gestione di un mandato che è, a tutti i livelli, auto-conservativo: il genitore conserva la prerogativa dell’ordine nel dare ordini, come la natura conserva se stessa prescrivendo di auto-perpetuarsi. Il padre ordina: obbedisci! E la natura gli fa eco: genera!… due pure formalità. In questa chiave, lo slogan di Haraway (“Generate parentele, non bambini!”) e ancor più il suo concetto di “intimità senza prossimità” sono rivoluzionari, perché mettono in discussione un paradigma millenario i cui codici sono incorporati tuttora nei nostri modi di vivere, e perciò sono tanto più difficili da mettere concretamente in discussione, perché sono tanti radicati quanto più agiscono sotto la superficie della coscienza (e al di là delle prese di coscienza, il che è ben più insidioso). Il problema è infatti se una cultura/civiltà come la nostra è realmente pronta a riformarli, tali paradigmi: il che non significa comprenderne il significato a partire dal linguaggio per tradurli in azione, ma al contrario, viverli essi stessi come un linguaggio. Su questo è lecito avere dei dubbi.[8] In ogni caso qui il problema è strutturale, perché non essendo in discussione l’amore di Amleto, nel dramma, il dubbio è che subentri ora, alla morte del padre, l’idealizzazione che prima non c’era ma che talvolta si accompagna al rimpianto: è proprio perché non l’ho più, che mi manca. Perché infatti non cedere e accettare, pur con riserva, la paternità di Claudio? La gentilezza interessata dello zio non è forse l’altra faccia della sua quasi-certa assenza nel padre? Quanto a Gertrude, più che gentile con Amleto appare (come del resto Ofelia) di una svampitaggine al limite dell’insignificanza[9]: quindi neanche da sua madre Amleto può aspettarsi di ricevere granché. Che fare dunque? Scrive Haraway: “il kinship, la parentela, include ma allo stesso tempo esclude, è una sua prerogativa”[10]. Uno dei problemi di fondo di Amleto – una delle ragioni della sua disperazione – sembra risiedere nel fatto che lui non riesca (non possa?) riconoscere questa prerogativa: e con ciò, nei fatti, la parentela stessa. Amleto esclude senza includere, negandosi ai legami: ma così, da un lato, si vota a un isolazionismo che lo conduce alla rovina; dall’altro, si preclude l’opportunità di quel terreno e mortale con-divenire coi vivi che in Haraway è il prerequisito fondamentale per con-vivere coi morti: cioè con la memoria. Si tratta quindi di cercare d’insinuarsi nelle ragioni esistenziali che rendono la storia del principe, come tutte le storie dell’Antropocene, una storia che finisce male[11]; e che per ciò stesso, pur per via negativa, può trasmetterci qualcosa. Insomma, Amleto come lezione a contrario sull’esistere e sul progredire, tracciamento che è possibile estrapolare immaginando i percorsi alternativi che avrebbero condotto a un finale diverso. Ciò richiede di seguire Amleto nelle sue esclusioni legittime e in quelle azzardate, nelle sue inclusioni mancate e nel suo agire insensato: così come nel rispetto della sua solitudine di uomo ferito il cui unico vero legame è con un fantasma. 

2.     Chiedi alla polvere. Kin, kind, dust

Torniamo alla battuta da cui abbiamo preso le mosse. Poche righe sotto, Gertrude mette in guardia Amleto dal “non cercare nella polvere il tuo nobile padre eternamente” (Do not for ever with thy vailèd lids / seek for thy father in the dust, I.2, v 71), e lo fa in nome della comune attestazione del divenire delle cose (all that lives must die, I.2, v. 72): secondo lei, ciò che è così comune non può essere speciale. Amleto non può ritrovarsi in questa posizione, e in effetti è l’unico personaggio del dramma – almeno fino al IV atto – che lotta contro la morte, che non l’accetta; per lui, vitale è solamente colui che a questa evidenza si oppone, che non incorpora cioè il meccanismo di sopravvivenza degli uomini come noncurante atteggiamento di conformazione-dispersione nelle cose, di fatto un appiattimento sulla nuda vita biologica che ai suoi occhi non può configurarsi se non come resa a una non-vita, opzione che lui istintivamente rifiuta (“Che cos’è un uomo se deve impiegare tutto il suo tempo solo a dormire e a nutrirsi? Una bestia, nient’altro”, IV.4, vv. 33-35[12]). Il principe è un eroe tragico anche perché non accetta il senso comune come premessa del vivere civile, combattendo la verità lapalissiana per cui solo ciò che è comune può essere comunitario: il suo eccezionalismo, rispetto alla questione della mortalità, è tutt’uno col rigetto dell’adagio per cui “comunque la vita continua”; ai suoi occhi può dire questo solo chi non ha conosciuto una vita diversa dal soddisfacimento dei bisogni primari (lo zio, la madre, gli abitanti del Regno): la sua inconsolabilità deriva perciò anche dal fatto che, nella sua solitudine, sente di non poter comunicare il proprio dolore[13]: se si è conosciuto l’amore, imprevedibile e incondizionato nella misura in cui risulta sempre nuovo, come si può vincolare il lutto che vi fa seguito a una durata prestabilita? Ecco perché Amleto non cessa di cercare il padre “nella polvere”, ed effettivamente contravverrà fino all’ultimo all’ammonimento materno, ostinandosi a cercarlo sempre là; ma a ragion veduta: se infatti persino l’assoluto per cui si vive, posto che esista, prima o poi finisce in cenere, allora tutto si risolve in cenere, l’uomo stesso è cenere. Quindi l’uomo è nulla. Per sapere chi sei, chiedi alla polvere. L’uomo a un certo punto diventa addirittura, per Amleto, non solo polvere ma “quintessenza di polvere” (quintessence of dust, II.2, v. 308). Poi aggiunge: “l’uomo non mi piace, e neanche la donna” (II.2, vv. 308-9)[14]. E quando Rosencrantz gli chiede che ne ha fatto del corpo di Polonio dopo che l’ha ammazzato, Amleto risponde: “l’ho ricongiunto alla polvere, di cui è parente” (compounded it with dust, ’tis kin, IV.2, v. 6). Polvere: il nostro congiunto più prossimo, il nostro parente più intimo, l’unico che, come la merda, ci costituisce attraverso un legame che non possiamo sciogliere, nostro comune impasto e prodotto, origine e destino: ecco perché è bene assumere radicalmente quel drossy age che esce dalla bocca di Amleto nel V atto (V.2, v. 186), e tradurlo, alla maniera di D’Agostino, con “epoca di merda” (in un’opera peraltro in cui l’olfatto è centrale quanto la vista e l’udito), e ciò in due sensi precisi: uno, assoluto, che ci concerne come uomini, polvere che diventiamo e  concime-merda della terra a cui torniamo (e in questo senso ogni epoca è in se stessa un’ “epoca di merda”[15]); un altro, relativo a tempi e luoghi determinati, come gli anni in cui Amleto ritiene di vivere: se tira un’aria di merda persino in famiglia cioè in casa, come faccio a liberarmi del suo lezzo quando mi aggiro nel mondo?

E ancora: polvere, ciò che fluttua nell’aria, che si deposita su cose e persone, talmente inconsistente da risultare immateriale: ma se l’uomo è quintessenza di polvere significa allora ch’è lui stesso l’espressione compiuta dell’inconsistenza. Il lettore ha buon gioco nel ravvisare nei giochi di parole di Amleto l’ascendenza biblica del Genesi e dell’Ecclesiaste: il tornare alla polvere che siamo, la vanità del tutto che ciò comporta. C’è anche questo certamente: ma Shakespeare è più vasto della Bibbia, e la sentenza che mette in bocca ad Amleto con riferimento al Re (the King is a thing […] of nothing, IV.2, vv. 28-30) rappresenta ben più che un’esortazione a considerare il nostro destino senza scampo; ha a che fare innanzitutto con la sostanza delle nostre vite, e quindi (ma in questo caso solo in seconda battuta) delle nostre morti: è un riferimento diretto al nulla di cui viviamo, e di cui – con gli occhi della morte – saremo un giorno vissuti. Questo è un discorso – tutto shakesperiano, quantomeno nelle modalità – che non può essere ricondotto all’angoscia di morte ch’è all’origine di filosofie e religioni: perché a differenze di quelle, che costituiscono delle prevedibili risposte a tale angoscia, esso concerne il principio di movimento e orientamento alla base delle nostre vite, ciò che internamente le muove, agitandoci: e con ciò rendendoci animati (letteralmente: dotati di anima, questo nulla mosso dal nulla e incarnato in quel nessuno che è ognuno di noi). 

Amleto fa un’affermazione, nella seconda metà del secondo atto, che ha valore retroattivo: “mio zio è Re di Danimarca e quelli che gli facevano le boccacce quando era vivo mio padre, ora danno venti, quaranta, cinquanta, cento ducati per un suo ritratto in miniatura. Perdio, c’è qualcosa di più che naturale  – more than natural – , in questo, se solo la filosofia riuscisse a scoprirlo” (II.2, vv. 362-367). Se solo la filosofia riuscisse a scoprirlo; perché in realtà lui l’ha già fatto, l’ha già scoperto, questo “oltre/sopra-naturale” non riconosciuto, che sarebbe semplicistico chiamare cultura, visto che nessuno l’ha mai definito, identificato o circoscritto: più che naturale, perché  incarna un’escrescenza indebita rispetto alla nostra antica, onesta natura scimmiesca. In fondo erano bei tempi, tempi all’insegna della trasparenza, quelli della legge naturale per cui l’esito di un confronto reciproco – che sempre si esauriva in quelle che Haraway chiama “prove di forza”[16] – dipendeva da una supremazia fisica oggettiva; laddove invece subentra la ricerca del prestigio, ineliminabile dacché l’uomo ha abbandonato la natura[17], prestigio che in se stesso non risponde a requisiti che non siano totalmente arbitrari, tutto diventa imponderabile, aleatorio, irrisolvibile e infine inconcludente, cioè – ancora una volta – inconsistente come la polvere[18]:

AMLETO Non c’è niente né di buono né di cattivo che non sia il pensiero a renderlo tale. Per me (la Danimarca, n.d.r) è una prigione.

ROSENCRANTZ Allora a renderlo tale è la vostra ambizione. È troppo stretta per la vostra mente.

AMLETO O Dio, potrei venir chiuso in un guscio di noce e considerarmi re dello spazio infinito, se non fosse che faccio brutti sogni.

GUILDENSTERN I quali sogni sono appunto ambizione. E infatti la sostanza dell’ambizione è meramente l’ombra di un sogno.

AMLETO Ma il sogno stesso non è che un’ombra.

ROSENCRANTZ È vero; e io considero l’ambizione di qualità così aerea e leggera che non è che l’ombra di un’ombra.

AMLETO E allora i nostri mendicanti sono corpi e i nostri monarchi ed eroi stirati e allungati sono le ombre dei mendicanti. (II.2, vv. 248-261)

Tutti noi viviamo di riconoscimento, perché la nostra identità è sociale; ma su quali basi poggia questo riconoscimento? Amleto offre a sua madre quel che lui chiama “uno specchio in cui vedere la parte più segreta di voi stessa” (II.4, vv. 20-21), e questo specchio altro non è che un ritratto del Re-padre, nonché suo ex marito, comparato a quello del Re-zio (“avete occhi? Non potete chiamarlo amore”, III.4, vv. 68-69): tradendo il primo lei si sarebbe degradata a prostituta per opera del secondo (lo zio che, nelle parole di Amleto, whored my mother, V.2, v. 65: prostituzione come condizione acquisita passivamente, per contatto cioè contagio)[19]; ed effettivamente quando cerchiamo noi stessi lo facciamo nell’unico modo che conosciamo, cioè la conferma, il ri-conoscimento che passa attraverso un’opera di delimitazione e fissazione cioè di arresto: ma questo ce lo può consegnare solo l’altro da me che è in me, o l’altro da me che è fuori di me (BERNARDO: Chi è là? – FRANCISCO: No, rispondi tu. Fermo e svela chi sei.; I.1, vv.1-2, è l’inizio della tragedia). In entrambi i casi però si tratterà di un’immagine (ecco in che senso Amleto può dire che “conoscere bene un uomo sarebbe conoscere se stessi”, V.2, 138-139). Ma se l’altro è il mio specchio, io lo sono a mia volta per l’altro: e due specchi posti l’uno di fronte all’altro, posto che non possono riflettere un’immagine (vale a dire ciò a partire dal quale ci definiamo), cosa mai potranno riflettere? Qualcosa che non possiamo concepire,  cioè noi stessi. Ci pare vada inteso in questo senso quel passo (geniale) in cui Donna Haraway scrive: “né l’Uno, né l’Altro, ecco chi siamo tutti noi, e chi siamo sempre stati”[20]

3.    “Beggar that I am”. Tutto e nulla, tutto è nulla

E ciononostante la nostra appercezione è appercezione di forme, perché senza forme non si dà conoscenza. Quindi la risposta alla domanda sull’identità potrebbe anche suonare: siamo nulla, a patto che con questo termine intendiamo il processo alla base dei nostri atti, che, in modalità da noi conosciute solo negli esiti (usi, costumi, pregiudizi, mode, tutti giochi di specchi tra noi e gli altri), ci sospinge, con l’illusoria parvenza d’unitarietà che ne consegue. Questo non può non investire, in modo tanto più problematico, i sistemi di parentela e le pratiche di genitorialità[21]. Ma soprattutto non può non sfociare in una riflessione sul corpo, che è l’unico referente possibile di questo processo: se la verità su noi stessi risiede nel fatto che nulla è realmente nostro perché non siamo mai i nostri veri padroni (il nostro arché sta fuori e sempre ci è ignoto), allora quel che è nostro è solo quel che siamo, cioè un corpo: ecco perché Amleto può esclamare di sé “mendicante che sono” (Beggar that I am, II.2, v. 272), come verità della propria condizione, quel che Guildenstern vorrebbe fargli confessare, come his true state (II.1, v.9): un universale declinabile a questo punto in ogni particolare. Prendiamo proprio Amleto: al di fuori di un rapporto che lo esauriva e la cui cessazione lo ha svuotato, sente che non gli rimane più nulla, se non il suo nome e la sua posizione (gli stessi del padre, non a caso le due sole cose di cui si preoccuperà appena prima di morire). Ma nome e posizione sociale, per il tempo in cui vive così come per ogni tempo, sono in un certo senso tutto, perché sono potere, e nella misura in cui dal disporre o meno di potere dipende la nostra vita. E tuttavia il potere, come la fortuna, non ha consistenza, non ha solidità: oggi c’è, domani forse no. È proprio la figura del mendicante che c’induce a ricordare questo: ed è per questo che ne abbiamo paura, è per questo che la scansiamo dentro e fuori di noi. Che cos’è, infatti, a infastidirci di fronte all’accattone che tende la mano, che ci fa volgere istintivamente lo sguardo altrove quando ne incrociamo uno per strada? La proiezione, su di lui, del nostro stesso sguardo: il mendicante è lo specchio del nostro nulla perché incarna la vita senza orpello alcuno, quella che non possiamo in alcun modo sopportare di concepire, e quindi di esporre, di portare alla luce innanzi agli altri: mendicante come figura di quell’ignoto che ci atterrisce quanto l’eventualità di una forma d’esistenza – comunque sconosciuta – dopo la nostra morte[22]: quell’ignoto che viceversa Haraway, col suo insistere sull’imprevedibilità e il rischio di nuove connessioni a tutti i livelli dell’esistere, ci invita costantemente a solcare. Amleto però – come tendenzialmente tutti noi, che normalmente affrontiamo rischi calcolati – non riesce a varcare quel confine: in questa chiave, il “mendicante che sono” diventa il ponte concettuale per comprendere la nudità cui l’esposizione al dolore l’ha relegato (I am too much in the sun, aveva risposto al Re-zio: non sono rabbuiato, sono fin troppo esposto, I.2, v. 67), ma su nuove basi di consapevolezza. Ora ha capito una volta per tutte che se non ha più niente, e quindi è fatto letteralmente di nulla, è solo perché morto suo padre nessuno lo guarda più (per quel che sente di essere, per ciò che ritiene di essere: ognuno di noi essendo niente più che un’ipotesi di lavoro). E quindi nessuno lo vede proprio perché non lo guarda[23]; il mendicante quindi non interpella Amleto in quanto povero (la povertà non è che un effetto collaterale, e non la causa, dell’essere mendico), bensì in quanto nullatenente, in quanto non gli è rimasto più niente che sia veramente suo, niente che non gli stato espropriato, niente che non gli sia stato strappato via, se non quell’ombra di se stesso che è il suo corpo (tutto il discorso finale di Amleto a Laerte della seconda scena del V atto va visto in questo senso, dove l’ “Amleto strappato a se stesso dalla follia” altri non è se non ognuno di noi, mai in fondo se stesso perché laddove non sia la follia a muoverlo, sarà qualcos’altro[24]… fino a che non perde tutto, e solo allora capisce chi è davvero). Il mendicante incarna dunque l’approssimazione figurale più vicina all’esistenza umana nel suo segreto più intimo: quel volto senza espressione, quell’immagine senza forma che mai potremo riconoscere, perché nel lasso di tempo che la coscienza impiega a metterla a fuoco per assimilarla, siamo già, nel frattempo, divenuti altro:  e con ciò destinati in eterno a non coincidere mai con noi stessi. Ma posto e compreso tutto questo, come prendere ancora sul serio l’esistenza? Tanto vale riderci sopra: e infatti Amleto è l’unico, del suo entourage, che ne è capace: non è la vita, in fondo, come ben sapeva Yorick, nient’altro che uno scherzo infinito (infinite jest)?[25] L’unico modo di ri-flettere sulla vita diventa allora ri-produrne il gioco, il suo stesso principio di movimento, imponderabile e impenetrabile ad occhio umano. Il mendicante che si fa buffone diventa ora ciò che riporta l’uomo a quell’arbitrarietà insita nelle regole del gioco che altri (cioè nessuno) ha deciso al posto suo[26]. L’imperativo non è più quello dello Spettro-padre (Se mi ami, vendicami!), ma quello del buffone-Yorick (ridi, gioca)! Il prendersi gioco del mondo riflette il mondo stesso come campo da gioco[27], e conseguentemente l’esistenza come accettazione dell’arbitr(i)o che la presiede, pena l’uscita dal campo, cioè dal gioco stesso, cioè dalla vita (il cui senso, allora, si risolve tutto nella sua pratica proprio perché è a somma zero). È questo il significato sotteso dalla digressione amletica su Alessandro Magno:

AMLETO Credi che sottoterra anche Alessandro Magno avesse questo aspetto?

ORAZIO Sì, proprio questo.

AMLETO E questo odore? Puah!

ORAZIO Proprio così, monsignore.

AMLETO A quali turpi usi possiamo tornare, Orazio! Non potremmo, con l’immaginazione, seguire le tracce della nobile polvere di Alessandro fino da vederla fare da tappo a un barile?

ORAZIO Sarebbe abbastanza curioso immaginarla così. 

AMLETO Niente affatto. Significa seguirlo con molta umiltà, guidati dalla verosimiglianza. Ecco: Alessandro morì: Alessandro fu seppellito; Alessandro torna polvere; la polvere è terra; con la terra facciamo la calce; e perché con quella calce in cui è stato mutato non si può tappare un barile di birra? (V.1, 194-208)

In questo dialogo c’è tutta la fenomenologia della vita umana[28]: il suo movimento circolatorio, e la sua forma insostanziale. L’esistenza umana è quindi un mero, insensato, caotico avvicendarsi di stati da vivere come maledizione scagliata dal caso, che precipita infine nella morte? Forse no –  o meglio: anche, ma non solo. Una delle piste che ci istradano verso una possibile “risposta con riserva”, è data dal fatto che kind non compare solo in quell’unico passo citato da Haraway come bandolo del filo FS sulla parentela. Compare in altre due occasioni, tirato in ballo da Ofelia e Laerte: circostanza che fa sì che anche laddove prese isolatamente, le due occorrenze entrino spontaneamente in relazione. La prima ha luogo nel terzo atto, è per bocca di Ofelia e per via negativa: “per la mente nobile, i doni ricchi diventano poveri quando chi li dà si mostra scortese” (when givers prove unkind, III.1, vv. 100-101); la seconda l’abbiamo nel quarto atto, allorché Laerte ritrova Ofelia in preda alla follia, e così l’apostrofa: dear maid, kind sister, sweet Ophelia! (IV.5, v. 160). La rilevanza di kind non è data solo dall’essere incastonato tra quei dear sweet che fanno da cornice, ma soprattutto dal fatto che è abbinato a sister: la consanguineità che diventa vicinanza, il kin che è kind senza il little more e il less che rendevano impossibile l’equazione  ad Amleto, e quindi impraticabile il legame rispetto ad uno zio-non-più-zio-ma-giammai-padre: la parentela come sogno impossibile di un rapporto tra pari (parenti, par-enti). A questo snodo nello sviluppo del testo, e per quanto concerne il nesso kin-kindkind è finalmente assurto a funtivo di un rapporto pienamente naturale in quanto realmente paritario, speculare ma non asimmetrico qual è quello tra genitori e figli (identico, quest’ultimo, a quello dato dalla visione della nostra immagine allo specchio, che non coincide mai con ciò che vedono gli altri quando siamo loro di fronte): rapporto in cui la gentilezza non risulta forzata bensì spontanea, perché non sussiste quella dipendenza “storica” – filo-genetica – che in se stessa è già un obbligo, cioè una convenzione. Quello che, dunque, all’inizio della tragedia si presentava come un grumo di ambiguità problematiche e non risolte[29] per cui le due dimensioni di kind non erano contemplate né rilanciate insieme se non per puro accidente (nel quadro insomma di una genitorialità convenzionale, fatta di ruoli e funzioni prive di contenuto), diventa ora necessità, frutto di una libera scelta, identità nella differenza[30]. L’ indizio che c’instrada ulteriormente sulla pista fraterna-sororale è dato dal fatto che, per quanto Amleto insista nel non perdere di vista le ragioni del cuore (O heart, lose not thy nature, III.2, v. 400) e ascriva sempre al suo sguardo la bontà “naturale” che discende dall’assenza di calcolo (Let me be cruel, not unnatural,  III.2, 402), è pur vero che il suo obiettivo viene alterato da mezzi che con sua madre non possono condurre ad un agire che non sia tortuoso anziché lineare, cioè diretto e franco: I must be cruel to be kind (III.4, v. 179); dove il kind che lo mette in tensione con la madre risulta stravolto tanto dalle circostanze quanto dall’asimmetria che il legame col genitore necessariamente comporta (per quanto quest’asimmetria risulti, in questo caso, a vantaggio del figlio anziché della madre). Il rapporto fraterno diventa così la sola relazione concepibile come equazione perfetta e identità piena fra kin kind. Nessuna alternativa, dunque, a uno spazio fatalmente ristretto, angusto, circoscritto com’è dalla consanguineità? In realtà Shakespeare apre a un’altra possibilità di legame “pieno” oltre a quello di sangue tra fratello e sorella: nella tragedia, quello appena abbozzato tra Amleto e Laerte. 

Quando Laerte torna in patria e scopre che Amleto ha ucciso suo padre, Polonio, e sospinto verso la follia la sorella, fa di tutto per affrontarlo in un duello che poi si rivelerà mortale; c’è una zuffa tra i due, che anticipa la resa dei conti con la spada, segno di una diversità che, come nei Duellanti di Scott, preesiste al contenzioso (Amleto s’infuria di fronte alla retorica cui Laerte dà voce in occasione del lutto, ed è questo che scatena la zuffa[31]); eppure Amleto afferma, ed è uno dei momenti più umani dell’intero dramma: “ma a me dispiace molto, buon Orazio, essermi lasciato andare con Laerte. Nell’immagine della mia causa vedo infatti il ritratto della sua” (V.2, vv. 76-77), e poi rincalza, appena prima del combattimento, di nuovo con riferimento a Laerte: “ho lanciato una freccia al di sopra della casa e ho ferito mio fratello”(V.2, vv. 237-238), e a questo punto le convenzioni date dai legami di sangue sono ormai puro nominalismo. Gli fa eco Laerte nel corso del duello, quando dopo aver confidato al Re che sta per colpire Amleto, esclama in uno dei suoi ‘a parte’, “eppure è quasi contro la mia coscienza” (V.2, v. 290). Insomma, i due hanno il presentimento di una fraternità che però, nei fatti, non si concretizza. Perché?

4. “A muddy death”. Ovvero, i bambini (mancati) del compost

Una possibile risposta a questa domanda la troviamo proprio in Chthulucene, allorché Haraway definisce la sua pratica con le figure di filo FS come “una forma semiotico-materiale di compostaggio, un modo di fare teoria nel fango, di stare nel disordine”[32], dove fango (muddle) – nelle sue stesse parole – è impiegato in qualità di “rassicurante metafora teorica per smuovere e confutare l’idea che la chiarezza visiva sia l’unico senso in grado di influenzare il pensiero dei mortali”[33]. Questa dichiarazione innanzitutto ci fornisce una chiave per spiegare una delle ragioni dell’inefficacia insita nella condotta di Amleto (che in questo è fratello gemello del Cartesio delle “idee chiare e distinte”): egli non fallirebbe nel suo disegno perché tentenna e dubita, cioè non agisce, come vuole la vulgata canonica, quanto perché – assunto come plausibile l’invito di Haraway – confiderebbe troppo nella vista: non mette infatti alla prova suo zio con la messa in scena della Trappola per topi, confidando di poterlo cogliere in fallo semplicemente osservandolo (I’ll observe his looks. I’ll tent him to the quick, II.2, v. 594)? Non vede lo stesso spettro di suo padre, secondo le sue stesse parole, in my mind’s eye (I.2, v. 185)? Amleto in effetti ricorre costantemente all’occhio come organo definitorio e definitivo nell’identificazione della realtà delle cose: la vista è per lui il senso per eccellenza, non dispone di alcun “senso interno”, o anche solo alternativo (essendo l’olfatto a senso unico: riflesso condizionato dei miasmi del mondo). Ma la dichiarazione che abbiamo citato diventa ancora più importante se facciamo interagire il muddle (nel senso di Haraway) con due luoghi precisi del testo shakespeariano. Il primo lo ritroviamo nel passo in cui Amleto definisce se stesso “canaglia fangosa” (muddy-mettled rascal, II.2, v. 564); il secondo, quando Gertrude parla dell’annegamento di Ofelia come di una “morte fangosa” (muddy death, IV.7, v. 183). Se qui è chiaro che il muddle di Amleto non è quello di Chthulucene, ciò non è in virtù di chissà quale composizione alchemica delle sue unità granulari, o di un supposto atteggiamento demiurgico di Haraway che sfocerebbe infine in una postura  simil-sciamanica da femminista-profeta, e neppure di una qualche sua deriva neo-gnostica; nemmeno però nel mondeggiare amletico in sé e per sé: perché è Amleto stesso a definirsi una creatura che striscia (What should such fellows as I do crawling […], III.1, vv. 127-128), così come strisciano su terra le tentacolari, ctonie creature care ad Haraway. Il problema di Amleto, uno dei tanti, non risiede nella sua forma mentis: quello di Amleto è già una declinazione, seppur allo stato grezzo, del pensare-tra, tanto è vero che quando Polonio lo trova con un libro in mano e gli chiede what is the matter, Lord? lui rilancia con un between who? (II, 2, v. 195); il suo è già, almeno in parte, un pensiero relazionale[34]. Il problema di Amleto non sarebbe lui ma l’epoca sua, “un’epoca di merda” (drossy age) anche in questo: nel colpevolizzarlo, cioè, perché si trova troppo indietro rispetto a lui. 

Scrive Haraway che commentare significa com-pensare, con-divenire, infine trasmettere, passare il testimone (andare avanti e restare a contatto col problema): ora, con chi può pensare, con chi può divenire Amleto, se non con se stesso? La tragedia di Amleto è innanzitutto una tragedia della solitudine, perché non può permettersi di violare le norme metafisiche, cosmologiche, sociologiche vigenti senza per ciò stesso ribadirne, in mancanza di alternative percepite o possibili, la validità – o senza farne subentrare il rimpianto, il che è lo stesso. Amleto vorrebbe darsi la morte, ma la legge divina lo trattiene; vorrebbe assecondare il suo disgusto, ma è frenato dall’antica credenza in un artefice del mondo che, nell’imperscrutabilità dei suoi disegni, deve aver avuto qualche ragione che, nella sua finitezza, l’uomo necessariamente non sa capire. L’universo amletico è quindi ancora intessuto di dualismi che, lacerandolo, si contendono elementi e forme di vita sballottandoli da un polo all’altro senza soluzione di continuità (Haraway direbbe che Amleto pensa ancora per categorie, anche se non lo vorrebbe). Che tipo di relazione ci può essere all’interno di un quadro qual è quello politico-nobiliare, e religioso-cristiano, di necessità verticistico cioè autoritario, e verticale cioè gerarchico? Qualsiasi movimento, qualsiasi evoluzione costituirà di necessità un passo (falso) verso la caduta, ed è effettivamente così che lo Spettro qualifica la presunta resa di Gertrude alla lussuria (“O Amleto, che caduta fu quella!”, what a falling off, I.5, v. 47), com’è negli stessi termini che Ofelia può riferirsi alla “nobile mente” di Amleto, una volta  divenuta ostaggio della follia (th’ observed of all observers, quite, quite down!, III.1, v. 155); ma non è lo stesso Re Claudio, il vilain per antonomasia, a sigillare una volta per sempre la fatale dicotomia di questo mondo conteso? “Le mie parole volano in alto, i miei pensieri restano in basso. Mai le parole senza i pensieri raggiungeranno il Cielo” (III.3, vv. 97-98). Come si fa a strisciare (crawl) se l’unico modo del movimento è quello verticale che copre la distanza fra cielo e terra? Non si striscia verso l’alto – tutt’al più, se si è fortunati, si ascende. Haraway in questo è saggiamente pratica: sa che non può darsi caduta, là dove si è da sempre con ventre e culo a terra (come le creature ctonie). In questa luce, la fraternità vagheggiata da Amleto, che si esprime nei suoi slanci monchi verso Laerte, non può diventare solidarietà reale: quello di Amleto è una forma di pensiero relazionale-orizzontale dentro una weltanschauung binaria e verticale; il tentativo impossibile d’istituire un piano d’immanenza dentro un orizzonte dominato dalla trascendenza. Amleto fallisce, in sostanza, perché non sa e non può compostare.[35]

Luca Peloso


[1]    Donna Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma 2019, pp. 148-9.

[2]    “La parola kin è troppo importante per lasciarla solo ai critici e la parola famiglia non può sostituirsi a kin perché perderebbe le radici e i percorsi che la legano a kind, l’essere gentile” (Id., op. cit., p. 243). Si tratta in questo caso di aggrapparsi alla lingua di Shakespeare come a un promontorio di roccia sospeso sul deserto delle culture. O se si preferisce, nel linguaggio di Haraway: di srotolare i fili FS amletici di cui lei stessa ci fornisce il bandolo, e cercare di vedere fin dove portano. Uno degli aspetti più interessanti e innovativi di Chthulucene deriva dal fatto che la sua dimensione generativa risulta talmente contagiosa da insinuarsi potenzialmente in tutte le attività che abbiano una qualche connessione col libro come “modo di produzione” (cioè di vita): a partire dal rapporto a carattere osmotico che sembra aver instaurato tra autore e traduttore (questa è quantomeno l’impressione che se ne ricava). Possiamo naturalmente sbagliarci, ma non abbiamo memoria di un libro altrettanto capace di portare a un limite così estremo – coincidente col principio di una specie di gemmazione – tutto ciò che è paratesto: e di questo tratto esortativo, linguistico-gestuale di Chthulucene costituisce prova l’apparato di note (tentacolari pure quelle), che difficilmente avrebbero potuto essere riprodotte in modo canonico, ad esempio a pie’ di pagina. Staying with the Trouble sembra essere ad esempio un raro caso di saggio il cui traduttore ideale è uno scrittore: e non per una questione di brillantezza o disinvoltura nella resa di neologismi o metaplasmi vari (che naturalmente non è qui in discussione, come si evince anche dalle note integrative di Durastanti, veri e propri commenti – nel senso proprio di Haraway, pensieri-trasmissione – al testo): quanto perché Chthulucene è un libro che di per sé esorta a un atto di creazione, reclamando una personalità che concresca insieme a lui; cosa piuttosto rara, nei testi filosofici, normalmente respingenti (perché per iniziati, o perché piattamente divulgativi). Questo tratto del testo, legato indissolubilmente a una performatività di linguaggio che è consustanziale al suo messaggio, fa sì che esso reclami comprimari ad ogni suo passaggio, dalla traduzione alla lettura, dalla citazione all’interpretazione. Gli antropologi parlerebbero probabilmente di osservazione partecipante.

[3]    Donna Haraway, op. cit., p. 117. Il passo prosegue precisando: “non è una presenza «virtuale», è una presenza «vera», ma in materialità tortuose”.

[4]    Questo potrebbe avere ulteriori ripercussioni sul piano delle scienze umane. Per quanto infatti sia palese il debito di Haraway con autori come Nietzsche e Foucault (la sua pratica FS come semiotica materiale, terrena e mortale con tutta evidenza deve molto al “restate attaccati alla terra, non coltivate speranze ultraterrene!” dello Zarathustra nietzscheano, così come tutti i suoi richiami alla tessitura e al mondeggiare sono inconcepibili senza il propedeutico lavoro decennale di Foucault sulla foggiatura), ora che conosciamo l’origine di certe posture prescrittive in campo etico, parentale e sessuale, a che serve impantanarsi in nuove “genealogie della morale” o “archeologie dei saperi”? A che pro, chiedersi da dove viene questo o quest’altro? Ormai sappiamo tutto quel che c’è da sapere: resta solo da chiedersi dove vogliamo andare; quest’impulso è prepotente, in Chthulucene. Si tratterebbe così di far tesoro delle acquisizioni e guardar oltre, trattenendo solo ciò che concorre ai nostri scopi. “Andare avanti restando a contatto col problema” deve quindi valere anche, se non soprattutto, per gli autori e le dottrine filosofiche. Non è un caso se oggi non ci sono pensatori, ma solo epigoni di pensatori. 

[5]    Come per molti oggi, poniamo, la famiglia tradizionale.

[6]    È il principio del bastian contrario, oggi materialmente sdoganato dall’uso dei social networks.

[7]    Per la nozione di foregrounding con particolare riferimento a Shakespeare, cfr. Harold Bloom, Shakespeare. L’invenzione dell’uomo, Rizzoli, Milano 2014, pp. 537-546.

[8]    Per avere un’idea di quanto la matassa FS sia a certi livelli talmente aggrovigliata da risultare inestricabile, è sufficiente confrontarsi con l’immenso, annoso, irrisolvibile problema del Fica Power. Qui la questione si fa assai delicata, perché se non c’è alcun dubbio che l’esigenza di generare parentele su diversi piani sia avvertita da molte delle donne (e/o femministe) cui Haraway demanda pressoché esclusivamente, bontà sua, il mandato di scindere la parentela da un processo biogenetico (e perché mai non potrebbero fare proprio questo mandato anche gli uomini? Perché non sono “biologicamente generativi”?), è pur vero che l’osservazione sociologica sembra contraddire questa placida visione lukàcsiana della coscienza di genere: a questo livello i più diversi  ambienti lavorativi, dal primo al terzo settore, offrono attualmente lo spettacolo quotidiano di femmine di tutte le estrazioni, condizioni ed età, le quali – almeno stando ai pronunciamenti verbali – non verrebbe da qualificare altrimenti che come soggetti, che nella realtà della loro presenza, dei loro comportamenti e in qualche caso delle loro azioni, obbediscono a riflessi condizionati che le pongono sullo stesso identico piano delle loro madri o nonne (per non dire, ma non si può dire, delle donne-oggetto). Nel caso si fosse incerti sull’entità di un simile apporto a un progetto di necessità minoritario – almeno per ora – come quello di Haraway, è sufficiente aver avuto l’occasione di assistere ad orde di femmine in ghingheri sdilinquirsi in moine al passaggio dell’ultimo dei quadri aziendali per convincersi che i tempi lunghi della coscienza non coincidono con quelli dei proclami. Allo stato dei fatti, pare non si riesca ad uscire dall’alternativa degli opposti estremismi: untuosità, subordinazione, mellifluità versus vanità, vacuità e trombonaggine: le prime appannaggio nell’isteria femminile; le seconde, della nevrosi maschile. (Che grazioso quadretto antropologico-aziendale! Con tanti saluti a “L’Homme”). Senza contare il sospetto che dietro ai sinceri afflati delle femministe più intransigenti e d’avanguardia agisca sottotraccia lo stesso tarlo che ha minato alla base l’operaismo secondo-novecentesco: la volontà di combattere il padrone come desiderio profondo di subentrargli (o di ottenere la propria fetta di privilegio, che è lo stesso). Questo spiegherebbe perché le donne con qualche responsabilità professionale tendano a replicare – in quella che è una mimesi meccanica, e perciò ridicola – il modello del dirigente maschile. Haraway deve aver sopravvalutato non poco le reali risorse delle sue alleate. Scrive Pasolini nelle sue Lettere luterane, con linguaggio più  neutro del nostro ma che non ci sembra discorde nei contenuti: “la falsa tolleranza ha reso significative, in mezzo alla massa dei maschi, anche le ragazze. Esse sono in genere, personalmente, migliori: vivono infatti un momento di tensione, di liberazione, di conquista (anche se in modo illusorio). Ma nel quadro generale la loro funzione finisce con l’essere regressiva. Una libertà «regalata», infatti, non può vincere in esse, naturalmente, le secolari abitudini alla codificazione” (Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane, Garzanti, Milano 2020, p. 21).

[9]    Il sospetto è quello dell’anaffettività, nel migliore dei casi del formalismo. Questo è un altro elemento da tenere presente, in riferimento a un testo come quello di Haraway che pare rivolgersi soprattutto alle donne: quelle che popolano la tragedia shakespeariana (salvo sporadiche eccezioni, come Lady Macbeth) prendono costantemente fischi per fiaschi. Con gli uomini invece il quadro è più composito, il che naturalmente non impedisce loro di finire al macello insieme alle loro donne.

[10]   Donna Haraway, op. cit., p. 238.

[11]   Cfr. Donna Haraway, op. cit., p. 77.

[12]   Haraway direbbe probabilmente che Amleto ha ben presente “l’importanza di provare dolore come sensibilità storica attiva” (Donna Haraway, op. cit., p. 254), il problema è che essendo il solo a coglierla è anche l’unico a poterla coltivare, trovandosi infine costretto, fatalmente, a identificare la dimensione storica con quella empirica (cioè biografica). Il salto di Chthulucene sembra comunque profilare una schema dei trapassi storici come torsione e ribaltamento: se in tempi antichi la vita era talmente incalzata dalla questione della sopravvivenza singolare da far  passare l’appartenenza a una civiltà in secondo piano (i vincoli essendo meccanicamente incorporati), con l’avvento della società dei consumi la vita dell’individuo smette di avere nella sopravvivenza il suo limite costitutivo, perché la produzione di beni superflui lo allontana dai bisogni primari al punto da non contemplarla neppure come eventualità teorica (è il lasso di tempo tra gli anni ’60 e ’90 del Novecento: il momento in cui il singolo è conteso tra il senso di appartenenza a una comunità che lo omologa, e un’ autonomia individuale del tutto velleitaria perché puramente reattiva e contrappositiva). Oggi invece, che il modo di vivere legato alla produzione di beni superflui è diventato una minaccia all’esistenza stessa del pianeta e delle specie, la questione della mera sopravvivenza, cioè del puro dato biologico-quantitativo che tanto fa orrore ad Amleto, rilancia in modo ineludibile la questione della qualità della vita, e quindi nuovi esponenti delle élite intellettuali – come Haraway – possono avanzare più agevolmente le loro proposte. (Corsi e ricorsi del salto ontologico. Attendiamo fiduciosi il prossimo trapasso).

[13]   Amour,di Michael Haneke, vede al centro una coppia di anziani, Georges e Anne, che ancora si amano. La loro vecchiaia procede serena, finché un ictus colpisce Anne, facendo virare il film  verso una lenta, spietata (eppure mai gratuita) discesa nel processo del decadimento fisico e cerebrale, a cui a un certo punto Georges reagisce, stremato, soffocando la moglie con un cuscino. Dopo l’omicidio una serie d’ inquadrature fisse a considerevole profondità di campo e da diverse angolazioni ci restituiscono una casa vuota e silenziosa: Georges è ora solo al mondo. All’improvviso, e senza alcun bisogno di effetti speciali, vediamo Anne in piedi, a poca distanza da Georges, in piedi davanti al lavello. Chiunque nella parola perdita non ravvisi un puro suono, sa che questa non è un’allucinazione né un vezzo d’autore: il fatto è che Anne è sempre stata lì –  e da lì non si schioderà. È questo, in buona sostanza, il senso della comparsa dello Spettro in Amleto.

[14]   Il tempo non è uscito fuori dai cardini al punto da non risparmiare ad Amleto, quattro secoli dopo di lui, un teatrino di attori femminilizzati, intimoriti e debosciati che recitano sullo stesso palcoscenico insieme ad attrici sempre più mascoline, aggressive e iper-attive. “L’uomo non mi piace, e neanche la donna”. Ecco.

[15]   Si ricordi l’esordio dell’Anti-Edipo: “L’es funziona ovunque, ora senza sosta, ora discontinuo. Respira, scalda, mangia. Caca, fotte” (Gilles Deleuze, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 2002, p. 3). Al fottere c’è un limite biologico dato dall’invecchiamento: di cacare o finire in merda, invece, non si finisce mai, da vivi come da morti. Merda, questa nostra matrice e compagna: merda, linguaggio diretto della realtà – anche di quella storica: con l’implicazione necessariamente scatologica e coprofaga che comporta (cfr. Pasolini, Salò). In tempi di merda, infatti, la merda non solo ti tocca respirarla ma pure masticarla e mangiarla: come sappiamo bene noi contemporanei.

[16]   A suo avviso ormai “necessarie ma decisamente insufficienti” (Donna Haraway, op. cit., p. 210). Sarà. Nel momento in cui scriviamo, a guerra in Ucraina in corso, quest’affermazione suona abbastanza irrealistica: e viceversa, le prove di forza ancora sufficienti, oltre che necessarie. C’è mai stato qualcosa di diverso, nella storia, dalle prove di forza? Ai posteri l’ardua sentenza.

[17]“La ricerca del prestigio […] nella nostra civiltà sembra sia un bisogno insopprimibile”(Primo  Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, p. 27); “l’ascesa dei privilegiati, non solo in Lager ma in tutte le convivenze umane, è un fenomeno angosciante ma immancabile: essi sono assenti solo nelle utopie” (Id., p. 29)

[18]   È lo stesso principio che presiede all’origine e diffusione delle mode. Che l’indossare mutande sporche come copricapo possa risultare inopportuno e indecoroso lo può pensare solo chi non ha ancora imparato che turarsi il naso può essere il prezzo da pagare per essere socialmente accettati. Non possiamo escludere che un giorno si guarderà a coloro che nella seconda metà degli anni ’90 usavano il Tamagotchi come oggi perlopiù si guarda, scuotendo la testa, alla gioventù hitleriana. Da Amleto in avanti, tutto ha un suono sinistramente arbitrario.

[19]   Che Gertrude rifiutasse l’appellativo è nelle cose; che Amleto abbia le sue ragioni per affibbiarglielo, anche. In ogni caso: che cos’è prostituzione? Ho chiesto ad Alessandra, quarantenne, escort, perché ha scelto il suo lavoro. Mi ha risposto che ha cominciato per necessità (o per caso), cioè per soldi: “e poi ho scoperto che mi piaceva”. Ho chiesto alla mia amica Marta, venticinquenne dalla vita privata molto vivace, se per lei fosse un problema non avere un partner fisso. Mi ha risposto: “no, perché mi piace scopare e conoscere gente”. La maggior parte degli uomini al tempo di Amleto si sarebbe schierato dalla parte di Gertrude perché la prostituzione era direttamente legata alla condizione sociale e la dignità era innanzitutto, per ragioni sostanzialmente religiose, un fatto di pudore fisico (il corpo, tempio dello spirito da non profanare). Oggi che la mercificazione è trasversale alle classi e ai ceti, e quindi in senso stretto la dignità non esiste, il suo concetto ancora sopravvive – piuttosto curiosamente – nel giudizio che subentra intorno all’uso dei corpi, e perciò si continua a definire la prostituzione come compenso dato in denaro in cambio di un rapporto sessuale: il risultato è che la società degli schiavi salariati (cioè le prostitute non ufficiali), stigmatizza persone come Alessandra e Marta, che non sono schiave di nessuno. E allora di nuovo: che cos’è prostituzione? 

[20]   Donna Haraway, op. cit., p. 141.

[21]   Qualche anno fa mi sono ritrovato a vivere per un po’ in una favela brasiliana. Tutte le mattine passavo davanti a una bambina di cui ho rimosso del tutto le fattezze, ma di cui ricordo bene l’impressione che ne avevo avuto, perché sul suo visetto infantile risaltavano, stridenti, due occhi di vecchia. Perennemente intenta a giocherellare, guardinga, vagamente indolente, se ne stava seduta sul cordolo del marciapiede. Un giorno mi sono avvicinato e le ho chiesto qual era il  gioco e dov’era la sua mamma. Ha risposto indicando con un cenno della testa l’uscio dietro di lei e dicendo, con voce di adulta: “mamma è lì dentro, lei non può lavorare”. Solo allora ho capito. Recentemente mi è capitato di parlare con un uomo di mezza età, che mi raccontava di quanto gli pesasse andare a trovare settimanalmente la madre anziana, donna in perfetta salute, baldanzosa, capricciosa e lamentosa. Quando gli ho chiesto perché dunque ci andasse, mi ha guardato come se avesse visto un pazzo, e con voce di bambino mi ha risposto: “è mia madre”. Haraway direbbe che sia nel caso della prostituta-bambina che in quello dell’uomo-infantile siamo in presenza di due risposte non sensate. Il problema però è che sono pertinenti; è il motivo per cui, al dunque, la questione dei legami familiari non può non riproporre l’eterno dilemma politico alla base del nesso rivoluzione-controrivoluzione. A chi il monopolio delle violenze future?

[22]   Il rinvio, per quanto scontato, è al mai troppo citato monologo d’apertura del terzo atto (III.1, vv. 56-83).

[23]   Ciò che trattiene l’anziano protagonista del film di De Sica Umberto D. dal tendere la mano e chiedere l’elemosina in pubblico, non è il gesto in sé, né il fatto che venga visto da chi quell’elemosina potrebbe pure concedergliela; bensì il fatto di essere guardato da terzi, cioè da testimoni: e quindi riconosciuto. L’umiliazione è sempre un gioco di sguardi. 

[24]   Cfr. V.2, vv. 224-233.

[25]   Titolo, com’è noto, di un romanzo che ha fatto epoca. Una delle cose interessanti di questa espressione è la sua prensilità: può essere sostantivata e riferita alla vita, come abbiamo appena fatto, oppure al buffone Yorick, come originariamente avviene nel testo (fellow of infinite jest, compagno “d’arguzia infinita”, “di brio inesauribile”): il che è lo stesso, perché ridere della vita significa prendere atto della sua natura tragica, non solo del nulla in cui tutto precipita ma altresì del nulla su cui tutto si edifica. Scherzo, perché siamo tutti presi in giro (cioè mossi) da qualcosa o qualcuno di cui ignoriamo l’identità, e rispetto al quale tutti i nostri tentativi di nominarlo (dio, destino, merito, colpa, caso, fortuna) non fanno che confermare il fatto che ci rimane inattingibile, incomprensibile e sconosciuto; infinito, perché quando lo scherzo finisce, siamo finiti anche noi. Vivere significa quindi essere le eterne vittime di uno scherzo di cui non sapremo mai l’artefice (o forse sì, come il tolstojano Ivan Illich – ma a quel punto sarà troppo tardi). 

[26]   I grandi comici, guarda caso, sono sempre dei grandi tragici.

[27]   Ecco perché Haraway può insistere sul mondeggiare stesso come gioco. Un gioco depurato della sua ascendenza tragica: per lei si tratta di giocare e basta, senza curarsi troppo dell’origine delle regole e di quel tanto d’imponderabile e arbitrario che comportano. Il criterio non è più la giustizia, ma il senso anzi la sensatezza (da intendere come buon senso: è sensato ciò che mi consente di stare al gioco, cioè di giocare bene). Nel suo insistere sul gioco Haraway ricorda, e forse consapevolmente riprende, il Deleuze di Nietzsche e la filosofia, e il Wittgenstein dei giochi linguistici.

[28]   In senso davvero husserliano: tornare alle cose stesse! Dopo Amleto, dopo Shakespeare, secoli di ininterrotta confusione mentale.

[29]   Kind come metonimia  e sinonimo di son, figlio/natura, vicinanza come fatto sociale, prossemica che produce legame sull’onda lunga dell’abitudine, senza alcuna possibilità di conciliazione col kind come gentilezza, intimità che prescinde dalla prossimità fisica (l’ “intimità senza prossimità” di cui parla Haraway, come rovescio di quella prossimità senza intimità che è tanto comune agli umani, e che costituisce la realtà quotidiana di tante famiglie).

[30]   È in questo senso che Hegel poteva affermare che quello tra fratello e sorella è un rapporto privilegiato: posso scindere un legame con un amante, non con una sorella, rapporto del resto più puro di quello con un padre o una madre perché non nasce come impari, cioè come fiducia indifesa dell’abbandono (filiale), e contempla – perlomeno in nuce – quell’interdipendenza che al rapporto genitore-figlio è sin dall’inizio preclusa, visto che l’unico modo di uscire dalla dipendenza con un genitore è rovesciarla (che è quello che, se non avviene economicamente o intellettualmente, avviene prima o poi sul piano biologico a causa dell’invecchiamento). Non si dà dunque, e non si può dare, rapporto parentale-paritario tra genitori e figli, che poi è una delle buone ragioni per non generarne: perché essere, anche solo per poco tempo, il despota-demiurgo-burattinaio di qualcun altro? Ogni processo di generazione biologica è la storia inconfessabile di un delirio. Questo aspetto apre ad alcune criticità insiste nelle proposte di Haraway, ad esempio laddove profila la concreta possibilità di pratiche di adozione di (e da) anziani. Ma questa è un’altra storia.

[31]   Nel film di Ridley Scott è evidente come i due ufficiali schermidori non abbiano bisogno di aggrapparsi a pretesti per sfidarsi a duello; la contraddizione non è tra loro, ma sopra. E perciò tanto più cogente.

[32]   Donna Haraway, op. cit., p. 53.

[33]   Id., p. 204. 

[34]   Cfr. Donna Haraway, p. 56. Haraway direbbe sicuramente che il “pensare-tra” amletico è ancora un “pensare-contro”, un pensare relazionale che non esce dall’orizzonte della disputa, cioè della guerra: e quindi – per usare un’altra sua formula – che quello di Amleto non è un esempio di frizione generativa, bensì di opposizione. Epperò, pur nel quadro di una relazione non plurima e pluridimensionale, bensì duale e binaria, Amleto resta, sul piano delle connessioni, infinitamente più avanti dei suoi contemporanei.

[35]   E ciononostante, prendere nota di proposte radicali come quelle di Haraway, alcune delle quali – come il modello tri-genitoriale – suonano tuttora in Italia come fantascienza o utopia (o distopia, a seconda dei punti di vista), equivale a prendere atto di due dati incontestabili: 1) la ricerca di nuove forme di parentela e relazione, in molti aspetti ragionevolmente anti-patriarcali, non deve farci dimenticare che almeno in letteratura il patriarcato è sensato nella misura in cui  discendiamo tutti da Shakespeare, Padre Nostro; 2) oggi, quattrocento anni dopo il parto del testo shakespeariano, non è possibile non dirsi fratelli di Amleto, questo nostro parente prossimo e lucido, comico e malinconico; questo sardonico rivoluzionario in anticipo sui tempi. Questo figlio doppiamente orfano: di padre, così come di un mondo non ancora pronto ad accoglierlo.