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Carattere, destino e simulacro: Walsh, Lang e Bogdanovich

Carattere, destino e simulacro: Walsh, Lang e Bogdanovich

“Per me la storia del cinema erano 

Vincente Minnelli, Raoul Walsh e Anthony Mann”.

Jacques Rancière

“Fritz Lang è il coro antico. 

È molto importante per me che nel film il regista 

Fritz Lang si chiami Fritz Lang, 

ma d’altronde non facevo del cinéma-vérité. 

Lang rappresenta tutto il cinema”.

Jean-Luc Godard

In una nota del suo Lo schermo demoniaco (1981), nel capitolo dedicato a “Il fantastico stilizzato”, Lotte Eisner (a cui Werner Herzog dedica un documentario nel 1982, dopo che nel 1974 si incamminò a piedi da Monaco per andare a trovarla a Parigi e, attraverso questo rituale del pellegrinaggio, provare a guarirla, vanamente), ricordando l’eclettismo di Fritz Lang, che cita le Mille e una notte (che ritarda la morte…) e il film Cabiria (1914), per il suo Der Müde Tod (1921), tradotto con Destino – un Nome in cui è inscritto il cinema langhiano – scrive che Douglas Fairbanks, in The Thief of Bagdad (1924) di Walsh, “prende in prestito” la scena del tappeto volante messo in quadro in uno degli episodi del film di Lang. Questa scena, a sua volta, sarà trasposta, “con tutta la sua maestria” da Murnau nel suo Faust (1926). Il problema non è citare o prendere in prestito, non è nemmeno l’angoscia dell’influenza, ma è saperlo fare con “maestria”.

Harold Bloom in The Anxiety of Influence descrive come operi l’influenza poetica, cioè la storia delle relazioni inter-poetiche. Per Bloom ci sono poeti forti e poeti deboli. I primi sono coloro che guardano al passato, che emulano la storia della poesia che li ha preceduto, ma travisandoli (mis-understanding); mentre i poeti deboli tendono a idealizzare la tradizione. Ma anche i poeti con vasta immaginazione, i poeti forti, auto-appropriandosi dell’esistente sono come indebitati con il passato e questo debito provoca quella che Bloom chiama “angoscia”. I poeti forti sono poeti originali, perché l’influenza poetica non rende i poeti necessariamente meno originali, anzi spesso, quando i poeti fraintendono i “classici” o i “padri”, li rende più originali. Lang, pur conservando una “visione molto personale”, cioè, per dirla con Bloom, è “forte, ma risente dell’influenza di Max Reinhardt, per esempio. Murnau cita Lang, ma lo fa con maestria, quindi è “forte”.

Andrew Sarris, nel celebre American Cinema: Directors and Directions (1968), distingueva registi da Pantheon, di seconda fila e idoli caduti. Nel sacro recinto annoverava Chaplin, Flaherty, Griffith, Hawks, Hitchcock, Keaton, Ford, Lang, Lubitsch, Murnau, Ophüls, Renoir, Sternberg e Welles.

Come spiega Tag Gallagher nel suo libro colossale su Ford, questi diventa Ford solo 1927, dopo l’incontro con Murnau. Anche Jean Douchet parla dell’influenza dell’Espressionismo e in particolare di Murnau su Ford. Questa influenza, voluta e cercata, assimilata attivamente, più che subita passivamente, permette al cineasta di introdurre nella sua opera, quella che il raffinato critico francese chiama dicotomia: tra story e discourse, narrato e forme del narrato. Questa dicotomia è ciò che affascina della scrittura di Ford, quella che aveva catturato l’attenzione dei «Cahiers du Cinéma» nel 1970, i cui redattori ravvisavano proprio nella écriture del regista, quelle distorsioni, curvature, incrinature (discorso), che decostruivano il contenuto apparentemente ideologico e apologetico dei suoi film (storia).

Murnau fu portato da Fox negli Stati Uniti, dove esercitò una notevole suggestione su molti registi come Borzage, il giovane Hawks e lo stesso Ford che rimase incantato e affascinato dall’intensa stilizzazione di Murnau, dalla sua invenzione figurativa capace di rendere così palpabile e sensibile il mondo psichico, emozionale e pulsionale dei personaggi. Gallagher inscrive Ford nel group-Murnau, contrapposto al group-Lang. Nel gruppo di Murnau figurano Ford e Sternberg che lavorano sulla caratterizzazione dei personaggi, sulle passioni, sulla gestualità e sullo stile realista, nei cui film i personaggi, nonostante il determinismo dell’ambiente, esercitano le loro scelte e le loro azioni. Nel gruppo di Lang, con Ejzenstejn e Hitchcock, invece prevale il simbolismo, l’azione, la staticità, la geometrizzazione pittorica, uno stile antirealista e soprattutto un determinismo meccanico e implacabile che inchioda i personaggi. 

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E Raoul Walsh? Torniamo alla nota di Lotte Eisner. Là Walsh nemmeno è citato. Di chi è il film Il ladro di Bagdad? Di Walsh? Ma non è un autore. Fa film su commissione, a Hollywood, dove chi fa i film sono i divi e i produttori e Fairbanks era sia una cosa che l’altra. Bogdanovich ricorda che negli Stati Uniti fu Sarris, con il suo articolo dedicato ai registi americani popolari apparso su «Film Culture» di Jonas Mekas a “far emergere un nuovo senso comune critico” scatenando le reazioni feroci di Dwight MacDonald – ancora attardato su posizioni da “Avanguardia e kitsch”, à la Clement Greenberg, che lo avevano già veduto protagonista negli anni Trenta – e Pauline Kael, sempre pronta a mancare il bersaglio – come nel celebre, anzi famigerato caso della querelle attorno a Citizen Kane (1941) di Orson Welles (su cui, recentemente, è scivolato anche il gelido e affilato David Fincher). In effetti Sarris dedica attenzione a Walsh, in tempi non sospetti. Scrive che i personaggi di Walsh sono devoti solo all’avventura, mentre quelli di Ford alla tradizione e quelli di Hawks al professionalismo. I primi muoiono con gli stivali ai piedi, dispendiosamente, bruciano di sé; gli altri sono sostenuti e sostengono una visione del mondo, nel caso di Ford, e si perfezionano in un esercizio quotidiano, una cura di sé etica, nel caso di Hawks. Bogdanovich conferma la lettura di Sarris: Walsh è l’avventuriero del cinema, i suoi personaggi traboccano vitalità, amano l’avventura. Ma soprattutto Sarris colloca anche Walsh nel suo Pantheon, insieme a Lang. Anche se Eisner non lo riconosceva come autore, evidentemente.

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In una conversazione con Bogdanovich, Walsh ricorda che effettivamente fu Fairbanks a commissionargli il film. E Walsh non ha problemi a parlarne al plurale: “Ci è venuta l’idea, ci abbiamo lavorato, e poi abbiamo fatto il film”. È un film con moltissimi trucchi osserva Bogdanovich e subito Walsh parla del tappeto volante. A un certo punto gli dice che secondo Fritz Lang – con cui Bogdanovich aveva parlato – Fairbanks comprò il suo film Destino per poterne sfruttare proprio i trucchi. Lang, nella sua conversazione con Bogdanovich, dice che il divo lo comprò per cinquemila dollari, copiando tutto. Quindi anche per il vecchio Lang – che da anni lavorava a Hollywood – in fondo l’“autore” del film – e del plagio – era Fairbanks. Walsh risponde: “Mai sentita questa. Non è da Doug, perché non voleva mai fare una cosa già fatta da altri. Voleva sempre inventare”. Ribadendo, fra l’altro, che sì, Fairbanks, l’attore, il divo, era anche un tipo inventivo. Forse, a proposito di tappeti, Mitchell Leisen – all’epoca costumista – diede un contributo più importante al film, che non Lang con il suo Destino.

Lang, dopo M (1933), rifiutò la proposta di Goebbels di dirigere tutto il cinema tedesco, anche se non gli disse no, ma lasciò la Germania dopo aver preso tempo. A Hollywood, il suo rapporto con produttori e critica non fu sempre facile per lui, anzi. Bogdanovich nel suo libro John Ford (1967), rammenta che conversando con Joseph L. Mankiewicz – che negli anni del maccartismo era presidente dell’Associazione dei Registi – questi gli raccontò di come un giorno fu duramente attaccato da Cecil B. DeMille, venerabile regista di Hollywood e fervente anticomunista. Il grande regista accusò il liberal e tollerante Mankiewicz  di essere un rosso. Accusa molto pericolosa in quei giorni. E ne chiese le dimissioni. A quella riunione c’erano molti registi presenti, anche Lang. Ma fu Ford a prendere la parola e a zittire DeMille. 

E Walsh? Quello che non sarebbe autore, che si farebbe soffiare i film da produttori e divi? Walsh racconta un aneddoto a Bogdanovich. Una sera era cena insieme a “Jack” Ford e ad altri. Ford continuava a lamentarsi del suo occhio malandato. Come Fritz Lang aveva passato troppo tempo sotto le luci dei riflettori, come lui era bendato. Due pirati. Ebbene, Walsh racconta a Bogdanovich, che a un certo punto si rivolse a Ford – quello che aveva zittito DeMille, che faceva piangere John Wayne, che filmava sotto le bombe nel Pacifico, che aveva diretto 250 operatori nel D-Day – dicendoli: “Dai, Jack, adesso te lo tolgo, così non ci pensi più. Lui mi guarda malissimo, ma perlomeno la smette di frignare”. Walsh ebbe la meglio su Ford, caso rarissimo, commenta Bogdanovich. Ma forse perché Ford ben sapeva che Walsh era cieco da un occhio fin dal 1927, quando lo perse in un incidente mentre girava, anche da attore, In Old Arizona.

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Pochi anni dopo l’affermazione della “Politique des auteurs” e negli anni in cui Jean-Louis Comolli rivendicava ancora per il regista la stessa dignità del pittore o dello scultore, nel mondo dell’arte (dell’originalità, dell’autenticità, del talento individuale, ecc.), le tendenze raggruppabili nelle primary structures rimescolavano i rapporti tra anonimato e autorialità; l’anonimato dei black paintings di Frank Stella o delle fotografie di Ed Ruscha, e più in generale il Minimalismo, rimettevano in discussione proprio la nozione di autorship, mentre l’Arte Concettuale rifletteva radicalmente sull’interdipendenza tra autorialità e produzione. Roland Barthes parlava di “morte dell’autore” e Michel Foucault di “morte dell’uomo”. Barthes: “la voix perd son origine, l’auteur entre dans sa propre mort, l’écriture commence” e “la naissance du lecteur doit se payer de la mort de l’Auteur”; era il 1968. Nel 1966 Foucault nel suo Le parole e le cose aveva annunciato che le scienze dell’uomo dissolvono l’uomo e che peraltro esso è un’invenzione recente e la sua fine è prossima. Nel 1969 Foucault scriveva che le nozioni di “opera” e “autore” sono quantomeno problematiche. Autore non è un semplice nome proprio (à la John Searle) ma è un certo modo di caratterizzare i discorsi. Una “funzione” più che un soggetto creativo o genio romantico. Nel 1967 e nel 1972 Peter Wollen aveva già riformulato l’auterism, spiegando che la concezione del cinema come arte era “rooted in the idea of creativity and the film as the expression of an individual vision”, mentre l’idea stessa di individuo era entrata ormai in crisi da tempo. Ogni film, scriveva Wollen, è un “network of different statemens, crossing and contradicting each other, elaborated into a final ‘coherent’ version”. Althusser avrebbe parlato di sur-determinazione. Il soggetto c’è ma è posizionato e si riposiziona.

L’autore, se è tale, lo è nel discorso, anche se, ovviamente, l’autore non sta nel discorso come l’oro in banca, ma appare secondo certe condizioni nell’ordine del discorso – anche quello di Hollywood e dell’industria culturale. L’autore è articolato nel discorso e nelle sue modificazioni. La libertà dell’autore è sempre posizionata nello spessore di una tradizione, un linguaggio, un discorso, che ha delle regole e perfino dei vincoli. Su tutto questo è stato scritto molto, anche da noi e in riferimento a Walsh. Al di là della facile e pigra opposizione di autore e discorso. 

Comolli è stato redattore capo dei «Cahiers du Cinéma» nella seconda metà degli anni Sessanta, quando ormai John Ford era valutato e qualificato come un autore, proprio su quelle pagine che negli anni Cinquanta lo avevano pressoché ignorato, in particolare con la sua avanguardia più agguerrita: la jeune critique. In un articolo consacrato a Howard Hawks e apparso sui Cahiers nel 1953, Eric Rohmer scrive che preferisce Hawks a Ford e che in genere il primo è più stimato, oltre che più personale. Probabilmente lo stesso Hawks si sarebbe imbarazzato se qualcuno gli avesse detto che lui era superiore e più originale rispetto a Ford. Negli anni Sessanta, con una nuova generazione di critici (Comolli, Narboni, Biette, Daney, Skorecki), Ford si sarebbe infine quasi stagliato su tutti gli altri autori amati e ammirati dai Giovani Turchi: Howard Hawks, Alfred Hitchcock e Fritz Lang, Orson Welles, Samuel Fuller e Nicholas Ray.

Non è un caso che sia proprio Comolli a dedicare un primo pezzo storico, che fece epoca, a Walsh sulle pagine della rivista fondata da André Bazin. L’articolo era intitolato L’esprit d’aventure e il numero, il 154, era dedicato a Walsh. L’avventura dell’individuo è l’avventura universale. Noël Burch, nel suo celebre Prassi di cinema, poteva ancora parlare a proposito del cinema di Walsh – con la sicumera tipica di molto Strutturalismo militante (dal quale lo stesso Burch prenderà le distanze più tardi) – di “mediocrità trasparente” e “banalità”, dimenticando, peraltro, che proprio il suo libro era originariamente apparso era apparso in dieci articoli su quei «Cahiers du Cinéma» che, sebbene un po’ in ritardo rispetto ai macmahonisti, avevano dedicato uno speciale a Walsh nel 1964 con un articolo ancora oggi notevole di Comolli, un’intervista al regista, nonché una filmografia commentata dallo stesso Walsh.

In ritardo rispetto a «Présence du Cinéma» e ai programmi del cinema d’essay dans l’avenue Mac-Mahon, au n. 5. Pierre Rissient, Michel Mourlet, Jacques Lourcelles e altri che animavano quella sala, i dibattiti e poi le pagine della rivista. I «Cahiers du Cinéma» stavano con Rossellini, «Positif» con Fellini, loro con Preminger e Losey e con Walsh e Lang. “Cahiers contre Positif, Mac-Mahoniens contre tout le mond?” (Mourlet). All’entrata della sala, negli anni Ottanta, ancora campeggiavano le fotografie in bianco e nero di Walsh, Lang, Preminger e Losey. Tutti “autori” per i mac-mahonniens. Ma Mourlet aveva pubblicato un articolo-manifesto nel 1959 proprio sulle pagine dei «Cahiers du Cinéma» diretti da Eric Rohmer, che non davano spazio né a Losey né a Preminger né a Walsh. Il titolo era Sur un art ignoré: “ce texte, éminemment symptomatique, comme notre lecture de certains de ses contemporains l’a vérifié (de Rohmer et l’école des Cahiers en général à celle de Présence du cinéma), a l’immense mérite de poser avec limpidité les prémisses essentielles, et aussi certaines des conséquences, d’une telle définition de l’art du cinéma” (Aumont). Mourlet aveva affinità con lo sguardo dei critici Rohmer e Rivette ma, al tempo stesso, l’articolo poneva dei seri problemi alla “Politique des Auteurs” elaborata da Rohmer, Truffaut e dagli altri “Jeun Turcs”. Infatti, Rohmer fa precedere l’articolo di Mourlet da una breve nota editoriale. Walsh era un forte punto di divergenza. Come detto, qualche anno dopo non solo Comolli, ma anche altri importanti giovani critici dei «Cahiers du Cinéma», come Serge Daney, Jean-Claude Biette e Louis Skorecki, apprezzeranno Walsh come un autore, liberandosi, al tempo stesso, del culto della personalità ancora insito nella politica dei giovani turchi. Walsh autore ma, per dirla con Stuart Hall, posizionato, all’incrocio di una molteplicità di articolazioni, per dirla con Louis Althusser. Per non parlare del fatto che, come dice Mourlet, “la singularité du cinéma” è la “reproduction mécanique des formes du réel”. Mourlet cinefilo e benjaminiano. L’invenzione del cinema è modernista, ma la sua riproducibilità tecnica lo accosta più a Rauschenberg che non a Manet o Picasso, cioè al Postmoderno che la fa finita con i concetti di soggetto creativo, originalità, autorialità, presenza, ecc. Che ne è della presenza al cinema se il filmato è già stato e ancora sempre sarà? Che ne è dell’originalità se consideriamo i multipli della riproducibilità non solo analogica? E dell’originalità se il film è sia di Walsh che di Douglas Fairbanks? Su tutto questo molto è stato scritto e anche da noi.

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La risposta di Bogdanovich, rispetto al dilemma originalità/riproducibilità, è nella sua prassi filmica. In The Last Picture Show (1970) Sonny Crawford (Timothy Bottoms) entra nel locale spettralmente vuoto, in cui biliardo e tavoli sono come nature morte, sospensioni spaziotemporali. Quel vuoto è come abitato dai fantasmi, da Ida Lupino e Humphrey Bogart che, in High Sierra (1941), si abbracciano intensamente. Fuori dal saloon, per strada, c’è la macchina in fiamme della moglie di Glenn Ford in The Big Heat (1953) e agli angoli di quello spazio fantasmatico Lee Marvin che fa fuoco su Gloria Grahame. Sul pavimento impolverato rimbalza silenziosamente la palla della bimba di M, alita la polvere da fuoco esplosa da Roy Earle. Come Robert Mitchum in Pursued (1947) anche Bogdanovich insegue le tracce del passato, una notte senza fine, quella della polvere di stelle. La grande notte del cinema, come diceva Marguerite Duras (Un barrage contre le Pacifique): “nuit artificielle”, “consolante”, “plus vraie que la vraie nuit, plus ravvisante, plus consolante que to le toutes les vraies nuits, la nuit choisie, ouverte à tous, offerte à tous, plus généreuse”.

L’immagine di Boganovich è una trace, per dirla con Derrida. Immagine, segno generato da altre immagini e da altri segni, anzi dalla differenza tra queste immagini e segni. Scrittura fantasmatica, fantasmi, ossessioni, simulacri, come direbbe Pierre Klossowski, che comunicano il fatto vissuto e il ricordo ossessivo del Bogdanovich cinefilo e critico e, al tempo stesso, raccordando l’anima del cinema classico con il corpo del cinema non solo moderno ma perfino postmoderno, esprimono come un’incomunicabile, uno iato, uno scarto, un dislivello, una differenza tra quelle immagini ormai auratiche e la polvere sì del tempo ma non solo quello storico, che separa quel classicismo da un presente smarrito in cerca di riferimenti, bensì del tempo filmico, narrativo, del racconto, polvere raccontata, che diventa elemento centrale, decisivo del racconto, ancor più dei personaggi che, per l’appunto, sono spettrali, non sono più eroi. Il cinema di Bogdanovich imita aristotelicamente, perché ha appreso dai generi hollywoodiani, dall’horror al western fino alla screwball comedy e al noir. Come osservava Klossowski a proposito del simulacro è sia un’ossessione che un esorcismo. Bogdanovich fa film con altri film, il corpo dei suoi film è animato dalla storia del cinema investita fantasmatica e ri-scritta. Bogdanovich simula l’originale, più che forsennarlo, introduce uno slittamento anche sottile per cui il suo cinema non è solo uno sguardo sulle cose – trasparente come nel voler-dire del classicismo hollywoodiano – ma è anche informato dagli schemi percettivi, dai pattern visivi e culturali: il suo sguardo è carico di teoria e storia del cinema. I suoi corpi filmici sono animati dai fantasmi di un cinema che pur scomparso, anche se inesistente, è pur sempre insistente. Quindi la sua scrittura filmica – anzi: archi-scrittura – in quanto simulazione, perverte l’imitazione vera e propria, cioè riproduttiva; non solo richiama ma mette anche in discussione quelle immagini, quei fantasmi di una Hollywood estinta. Non c’è dissacrazione irriverente e di maniera, né contemplazione cultuale, ma uno scambio tra i suoi corpi e l’anima del classicismo. Una differenza. I corpi filmici di Bogdanovich sono segni dell’assenza di una presenza e di un presente sempre assente, quello della Vecchia America, di Hollywood e del divenire-immagine di un certo mondo che il regista mette in scena esemplarmente in Nickelodeon (1976). Il simulcaro è “mancanza originaria”, è la traccia, cioè un linguaggio – postmoderno e decostruttivo – che, direbbe Derrida, porta in sé “la necessità della propria critica” – e Bogdanovich, per l’appunto, è stato anche critico. Il suo imitare/apprendere/dirottare il classicismo non è solo nostalgico e cinefilo ma anche critico.

Come Walsh e Lang prima di lui anche Bogdanovich ha avuto a che fare con le obbligazioni, le scadenze, le condizioni della produzione e della riproduzione e con la “cornice”, forzandola per quanto ha potuto. Ha potuto filmare in quanto già filmato. Walsh e Lang l’hanno fatto cercando di restituire le cose stesse, l’ordine di presenza, come direbbe Derrida: è quello che si chiama trasparenza del classicismo. Bogdanovich, già oltre la modernità, iscrive la sua écriture come in ritardo su quel testo che è il classicismo, il suo linguaggio è già da sempre in un inesauribile linguaggio ancora più vecchio.

I suoi simulacri sono invenzioni più che riproduzioni perché costruiscono significati e livelli diversi rispetto a quelli dei prototipi. La strategia cinefilo-mimetica di Bodganovich annulla di colpo sia l’identità del cinema classico – che è scambiata, ri-scritta nei suoi film – sia quella dei “suoi” film – già da sempre divaricati dall’altro, espropriati dalla storia fantasmatica del cinema che attraversa i “suoi” film. Klossowski parlerebbe di estasi sovrana, come quella che traspare dal Ben Gazzara di Saint Jack (1979): “simulacro della morte”, in quanto crisi, se non sparizione del soggetto. Quel che resta non è l’IO (o il genio), come crede il Bloom più tardo del Canone occidentale (1994), ma il o un simulacro.

***

Lang autore, ma anche Walsh, a condizione che l’autore sia sempre correlato alle formazioni discorsive. Del resto, come ricorda Bogdanovich, anche Lang fu sottovalutato soprattutto negli Stati Uniti, dove si preferiva il Lang tedesco, magari solo per partito preso, anche per i suoi film tedeschi erano più difficilmente reperibili. Così come si preferiva l’Hitchcock inglese. 

Ma non in Francia. Uno degli articoli fondativi la “Politique des Auteurs”, scritto da Truffaut, è dedicato proprio a Lang: Amare Fritz Lang. L’articolo apparso nel 1954 sottolinea l’elemento della lotta dei personaggi di Lang immersi in un universo ostile.Ma negli Stati Uniti, osserva Bogdanovich, il lang americano non era così stimato.  Bogdanovich, nel suo Fritz Lang in America (1967), cita critici e riviste che sottostimavano il Lang hollywoodiano. Bogdanovich, che tra la fine degli anni Cinquanta e la fine degli anni Sessanta, guardava tra i 300 e 500 film all’anno, al contrario, osserva “the fight against fate continues from Der Müde Tod (his first success in Germany) to Beyond a Reasonable Doubt”: il film del 1956 con Dana Andrews e Joan Fontaine è altrettanto crudele. Rancho Notorius (1952) è come Die Nibelungen (1924) un film sull’amarezza della vendetta e dell’odio. In effetti l’articolo firmato da Truffaut conferma in anticipo le osservazioni di Bogdanovich. Anche Truffaut sottolinea che alcuni critici in Francia considerano irrimediabilmente compromesso Lang. Detestano i suoi film hollywoodiani. Ma Truffaut scrive che in Lang “si rimane sorpresi da quanto c’era di hollywoodiano nei suoi film tedeschi” e al tempo stesso “da quanto egli abbia voluto conservare di germanico nelle sue opere americane” – in quel “voluto”c’è tutto il romanticismo, se non il volontarismo della “Politique des Auteurs”.

Quello che cambia, con l’arrivo di Lang a Hollywood, secondo Bogdanovich, è che il regista abbandona i personaggi fuori dell’ordinario dei film tedeschi – che poco si adattano alle aspettative del pubblico americano – per mostrare uomini medi, i “John Doe”, che invece funzionano nel cinema americano e, quindi, anche in tutto il mondo. Ma questo passaggio rende ancora più inquietante i suoi film americani. 

Il “common man” dei suoi noir e polizieschi è ancora più perturbante del mostro di M. Il professore universitario Edward G. Robinson in The Woman in the Window (1944) entra in una dimensione sospesa tra sogno e incubo vacillando sui gradini dell’ingresso del club in cui ha bevuto più del solito. La sua presenza a sé entra in crisi e l’accademico, marito e padre, si accosta ancora una volta alla vetrina per ammirare l’immagine del ritratto e la donna ritratta – proprio come in Laura (1944) di Preminger. Il vetro della finestra è un filtro che Robinson attraversa con la sua pulsione scopica per penetrare nell’immagine della donna che, ad un certo punto, si sovrappone al ritratto. L’immagine è raddoppiata, l’immagine rinvia alla donna e al desiderio per quella donna. Il vetro è ormai infestato, per dirla con Henry James.

Bogdanovich nota come Lang entri nel cinema americano adottando la griglia concettuale del “realismo sociale” attraverso i suoi primi film (i produttori dicono a Lang che agli americani non piacciono i simboli): Fury (1937) e You Live Once (1937) – di cui si sarebbero ricordati sia Nicholas Ray che Terrence Malick – ma poi abbandona questi “social aspects” per focalizzarsi sulle “universal qualities” dei suoi motivi quasi ossessionanti: la lotta con il destino, con il fato e soprattutto, come dice Lang a Bogdanovich, la lotta stessa, che è più importante dell’esito. Quindi, pur mostrando e raccontando di uomini normali, Lang rimane poco interessato alla “normality”. I personaggi di Scarlett Street (1945) e The Big Heat sono credibili, è vero, ma sono anche “warped by life”. Il sogno di Edward G. Robinson si converte in un incubo in cui peraltro nessuno vuole credere negandoli perfino penitenza e redenzione. Il poliziesco con Glenn Ford è sadico e crudele e la normalità messa in scena è “insulted and injured”. Il Lang hollywoodiano non fa prodotti da sogni che incantano, ma crea “nightmares”.

***

Destino anche in Walsh? Il destino del ladro – nel famoso film con Fairbanks – è il suo carattere. Il gangster Eddie in The Roaring Twenties (1939) ha perso tutto, anche la vita, ma ha ritrovato il suo carattere sottraendosi al destino. Il boxeur Jim Corbett in Gentleman Jim (1942) ha un carattere che è oltre (se non contro) il destino: si risolve e dissolve. 

Roy e Wes in High Sierra (1941) e Colorado Territory (1949) come il Custer walsh-flynniano di They Died with Their Boots On (1941), sono personaggi più in atto che in azione. Il loro carattere non si esaurisce nelle azioni (riuscite o fallite), né si arrende alla trama della macchinazione, piuttosto si schianta contro gli ingranaggi della macchina sociale, del destino di cui parlava Benjamin: “stato demonico” di infelicità, di colpa, che esige una vittima sacrificale, “una nuda vita”, “un portatore desinato della colpa”. Carattere e destino co-incidono in Walsh. Compiersi in White Heat (1949) è dissolversi nella catastrofe non per effetto di un complotto buio o di una sceneggiatura che stritola, schiaccia, separa, bensì per sottrarsi a questo destino distruggendosi, nella luce delle fiamme, in quanto oggetto di complotto, di tradimento.

Lotta e destino in Lang, destino e carattere in Walsh. Entrambi molto amati e ammirati da Peter Bodganovich – alla cui archi-scrittura dedichiamo questo pezzo.

“How bootfifull and how truetowife of her, when strengly 

forebidden, to steal our historic presents from the past postpropheticals 

so as to will make us all lordy heirs and 

ladymaidesses of a prettt nice kettle of fruit”

James Joyce, Finnegans Wake

Toni D’Angela

Bibliografia

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Roland Barthes, “La morte dell’autore” in Il brusio della lingua, Einaudi, Torino 1988

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Lotte Eisner, Lo schermo demoniaco, Editori Riuniti, Roma 1983

Michel Foucault, “Che cos’è un autore” in Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 1996 

Michel Foucault, Le parole e le cose, BUR, Milano 1998

Tag Gallagher, John Ford. The Man and His Film, Berkeley, University, California Press, 1986

Pierre Klossowski, Arte e simulacro. Scritti e interviste, Mimesis, Milano-Udine 2023

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Andrew Sarris, American Cinema: Directors and Directions, Dutton, New York 1968

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