La Furia Umana
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Interferenza

Interferenza

“…the modern world interfers in art”

Paul Virilio

La semplicità della forma, ha scritto Robert Morris, non corrisponde né postula una semplicità dell’esperienza. Come ripete incessantemente Godard: la vita è complicata. Le forme più semplici ma, paradossalmente, altrettanto se non più ostiche, dei film del suo terzo periodo (la pedagogia della comunicazione degli anni 1973-1978) hanno la funzione di ordinare e riordinare le relazioni che intramano il tessuto dell’esperienza, sempre più concepita, sia da Morris che da Godard come processuale.

Quando Paul Sharits si interroga su Godard, si pone anche il problema di come attivare o risvegliare gli spettatori, tradizionalmente incagliati nel dispositif cinematografico. Per esempio con l’interferenza, che non è negoziazione, compromesso storico tra audio e visione, raccordo o accordo, ancoraggio, ma conflitto di interessi e incrocio, sovrapposizione, rumore che fa inciampare la comunicazione, cioè la trasmissione di comandi.

Norman Bryson, tra gli altri, ha mostrato che, per comprendere i processi visivi, una relazione basata solo sul modello comunicativo per cui un mittente usa un codice e un canale per inviare un messaggio a un destinatario, è riduttiva. Poiché questo modello elimina il più possibile il “rumore”, cioè, per esempio, la materialità della pittura, la pittura come segno, le interferenze culturali, sociali, storiche che modellano la vision convertendola sul piano più esteso della visuality. Pertanto, vision non è painting.

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Quello che Stan Brakhage in Dog Star Man (1961-64), nel solco aperto da Wordsworth e Olson, è mettere in scena l’interferenza, abbandonandosi alle cose, dismettendo la funzione individuale dell’ego, calandosi fra gli “oggetti” (objectism olsoniano). L’ego, allora, non è che l’interferenza fra il soggetto e l’oggetto, presupposto della cultura occidentale, che ha sempre impedito all’uomo di concepirsi alla stregua degli altri oggetti della natura. L’atto proiettivo (“projective act”) del verso aperto è un atto inscritto nel campo aperto degli oggetti: la natura.

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Word Movie (1966) di Sharits è costruito sull’impossibilità di due sistemi (parola e immagine) che dovrebbero cooperare contemporaneamente, cioè sull’impossibilità di un sistema logico coerente, di una lingua (soprattutto se fusa con la visione). Quindi, in un certo senso il film è una critica della nozione tradizionale, logica e razionale di verità. Sharits decostruisce tale mito “maneggiando” l’impurità, l’interferenza dei vari livelli di percezione (visiva, verbale, ecc.). Suono e immagini sono sempre stati concatenati nel cinema, fin dall’epoca dei silent movies, nondimeno Sharits, in Word Movie, radicalizza tale relazione, esasperandola, decontestualizzando e denaturalizzando una relazione che spesso, soprattutto nel film organico, è stata linearizzata e asservita alla logica della trasparenza, in cui la parola è stata quasi sempre assoggettata all’immagine, il suono messo al servizio della visione. Word Movie è una agencement di suono e visione, orecchio e occhio, parola e immagine, un décalage, un differenziarsi della differenza.

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Sharits, come detto, ammirava molto Jean-Luc Godard.

Il gesto di Godard è sempre un affronto all’intellegibilità, cioè impedisce il formarsi di un testo con un messaggio, un processo di comunicazione, una lettera. Si tratta, ancora una volta, di disturbare, rigare, fare interferenza, far inciampare la presa di possesso e far balbettare il disegno di una percezione chiara e distinta, di un dispositivo di cattura discorsivo che riconduce perfino i pezzi a una totalità, ad una “storia”.

Nella celebre scena del ballo al bar, la sua voce estromette una delle quattro bande della pellicola di Bande à part (1964) – che è girato in presa diretta – la banda della musica, interferendo con la banda visiva, quella dei rumori e quella dei dialoghi (delle voci dei personaggi).

Quella di Godard è una critica e un’autocritica disarticolate nell’interferenza tra le cose che sono sempre complicate. L’interferenza elettronica tra audiovisione e testo in Six fois deux (1976), girato con Anne-Marie Mièville, per esempio nel terzo episodio, “2a/Lesson de choses”, e l’interferenza tra suono e immagine, il rumore prodotto dalla fabbrica delle immagini e dei suoni. È la storia di Comment ça va? (1976), il film più “narrativo” di questo periodo in cui la riduzione delle forme e degli stilemi al piano fisso, in realtà, è un torsione che forsenna il linguaggio cinematografico.

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Godard ha in comune con Sharits e con Robert Morris la vocazione a inquisire la materialità e l’immaterialità, la struttura, le convenzioni e il fantasma di un medium che era oggetto di interesse anche di altri artisti che volevano superare il paradigma greenberghiano del Modernismo in quanto formalismo e riduzionismo. Manny Farber, nella sua ricognizione su Godard, infatti lo ha paragonato a Morris per la sua attenzione al medium.

I-Box (1962) di Robert Morris, tra i “fondatori” della Minimal Art, in cui nel gioco di parole del titolo dell’opera (“I” si pronuncia come “eye”) si sintetizza l’interferenza tra oggetto artistico e spettatore e tra tattile e visivo. Allo spettatore è richiesto di manipolare l’opera per poterla vedere nella sua interezza, lo spettatore diventa protagonista dell’opera con l’opera stessa e questa si realizza solo nel processo di questa interazione.

Questa passione per l’interferenza guasta i piani del linguaggio. Lo specifico del linguaggio è di essere articolabile, insomma di avere una “buona forma”. Affinché il linguaggio funzioni bisogna che i segni siano isolabili gli uni dagli altri – si pensi all’atomizzazione della scrittura alfabetica. Le regole di combinazione e di continuità articolano questi segni. Lo specifico del liquido è invece di essere indivisibile, dunque non esistono parole liquide, anche se si parla di flusso di linguaggio, se non nel brevissimo tempo in cui vengono scritte e l’inchiostro non si è ancora seccato. È a questo momento che guarda Ed Ruscha, negli anni Sessanta, con la serie di quadri intitolata Liquid Words. L’oggettività, l’articolazione e la buona forma, la solidità delle parole, delle lettere è sciolta, fusa, scivola verso uno stato di indifferenziazione. È un cortocircuito, un’interferenza tra scrittura e pittura.

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Joe Dante è un altro maestro dell’interferenza. L’immagine o, meglio, la contro-immagine della distorsione del segnale elettrico, è la figura del dissenso. Un segno di interpunzione che non è solo un vettore sintattico, ma anche una dimensione semantica. Il segno di interpunzione, in questo caso, non è un facilitatore del transitare di un’immagine nell’altra, ma, al contrario, è la sfasatura, la rottura, la disarticolazione che interrompe l’ordine del mondo, il suo continuare verso il precipizio, il flusso delle immagini. Le figure dello schermo sono disturbate, lo stesso schermo è disturbato. The Howling (1981) si apre con distorsioni radio e disturbi nei transistor. Contro il mediale e la virtualizzazione del reale, Joe Dante disturba le trasmissioni elettro-magnetiche di The Screwfly Solution (2006).

I disturbi del segnale televisivo di Joe Dante sono gesti-firma di una messa in scena artistica, di un tremolio. Il rifiuto della messa a punto della nostra sottomissione alle leggi del mediale. Come ha scritto molte volte Paul Virilio, siamo ormai tutti spettatori di piccoli schermi, televisioni domestiche, qui e altrove, istantaneamente, quindi in nessun luogo, senza contatti. La biotecnologia è prossima a colonizzare l’organismo umano. Sono saltate superficie e profondità, c’è solo l’interfaccia, l’unione telesessuale, il cybersesso, la riunione a distanza.

Anche il volo spielbergiano di Explorers (1985) si chiude, polemicamente, con l’inquadratura disturbata, con l’interruzione del segnale televisivo, dopo che l’orgia vertiginosa delle immagini, diffuse nell’etere spaziale, ha sprofondato nell’autismo televisivo gli alieni.

In The Second Civil War (1997), Dante riga il racconto con l’immagine del segnale televisivo distorto, ma in questo caso la défaillance dell’immagine, dialetticamente e ambiguamente, svolge una doppia funzione. Sia di censura, messa in piega e aggiustamento del reale; sia di sabotaggio della comunicazione che informa solo per formare e deformare. Il mediale si estende allargandosi a tutti gli aspetti della vita associata, fabbricando il reale, svuotando la durezza e la solidità degli eventi, scarnificandoli nella mediazione dell’informazione, che proietta infine questi stessi eventi, disindividualizzati e disincarnati, in una scena derealizzante, uno spazio disintegrato. Le informazioni, come ha spiegato Paul Virilio, non sono trasmissione di contenuti, ma bombe che non cessano di esplodere nei nostri modi di pensare, provocando incidenti sempre più complessi. Non liberazione ma controllo globale dell’umanità da parte di potenze multimediatiche totalitarie. Una derealizzazione audiovisiva di cui è complice il tentativo dell’uomo di sfuggire alla sua congenita incompiutezza, all’insoddisfazione di essere se stesso.

Il segno del mediale non solo sostituisce il reale (The Howling), ma lo fabbrica. Se non è sullo schermo la realtà non esiste. Perfino le azioni umanitarie in difesa dei più deboli, deve diventare una farsa per andare ad effetto, trasformandosi nella ribalta di personalismi e fantasmi, ambizioni e opportunismi. È il regno dell’immagine: il grado più alto di accumulazione del capitale e del controllo politico.

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Ma l’interferenza è ancora più “antica”. Michel Foucault osserva che maestro dell’interferenza è stato René Magritte. In Magritte colpisce l’uso del linguaggio scritto. In Magritte la lettera in quanto segno permette di fissare le parole; in quanto linea permette di raffigurare la cosa. Si tratta del calligramma (già usato da Apollinaire che dispone una poesia sulla pioggia in righe verticali che imitano la pioggia) che cancella le opposizioni della nostra civiltà alfabetica, rimescola le carte. Testo in immagine e immagine del testo. Il testo di Magritte non è la tradizionale didascalia, che spiega, fa da sostegno all’immagine, ma quello di Magritte è doppiamente paradossale, non esplicativo. Il testo di Magritte nomina ciò che evidentemente non ha bisogno di essere nominato, perché la forma è fin troppo familiare e conosciuta: per esempio una pipa, di cui sappiamo che è una pipa e che, al tempo stesso, non è una pipa. Dà il nome e mentre lo dà nega che sia quello. Questo è il senso del calligramma. Se si legge il calligramma la forma si dissipa, se si guarda il calligramma questo non dice più, infatti se ne vede la forma. Il calligramma non dice e non rappresenta mai nello stesso momento. Magritte redistribuisce testo e immagine nello spazio. Figura e testo continuano a incrociarsi, anzi a interferire tra loro. Questo che vedete, questo disegno di cui riconoscete la forma, non è… una pipa. Questo (una pipa in stile scritturale e un testo disegnato) non è una pipa. Un calligramma disfatto perché cancella, nega (mentre il calligramma di Apollinaire sulla pioggia moltiplica le affermazioni).

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Anche i lavori di Robert Rauschenberg, che risuonano nella New York che diventa postmoderna, sono “rumori ottici”, interferenze. Detriti e rifiuti della comunicazione, come le interferenze della radio, rumori che rigano il significato. In una città come New York invasa dalla comunicazione e dalla pubblicità che trasmettono messaggi, Rauschenberg più che un tecnico della comunicazione, è un sabotatore della comunicazione. La città è un palinsesto di immagini e suoni, anche i suoi combine-painting lo sono, sono come un “cityscape”, una mappa, un tabulato di informazioni, solo che, a differenza di politici e strateghi del marketing, non vuol trasmettere un messaggio o un comando. Interferenza tra pittura e scultura, arte e pubblicità. Il flusso incessante dei suoni e delle immagini costantemente “unprocessed” – oggi più che mai – è come mappato sul piano di lavoro.

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E, per risalire ancora più indietro, che dire del collage picassiano Bottiglia di Vieux Marc (1913)? Qui una forma di berretto a busta, che è il ritaglio di una pagina di giornale, si legge come trasparenza solo perché interferisce sia con il bordo del bicchiere di vino che con il suo contenuto, mentre sotto il profilo rovesciato del ritaglio registra l’opacità dello stelo e della base dell’oggetto, dichiarandosi figura contro lo sfondo della tovaglia di carta da parati.

Six fois deux/Sur et sous la communication (1976)

La Furia Umana sarà sempre di più una costellazione di interferenze. Interferenze, come quelle che costellano The Passenger di Cormac McCarthy.

Toni D’Angela