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Come in uno specchio. Da Godard a Godard

Come in uno specchio. Da Godard a Godard

Quando Michel-Ange nel rosselliniano Les carabiniers (1962) di Jean-Luc Godard entra nella sala cinematografica per la prima volta nella sua vita ha le medesime reazioni che avevano gli spettatori dei fratelli Lumière. È atterrito e attratto. Cerca di spiare ed entrare dentro l’immagine, soprattutto per vedere meglio il corpo nudo dell’attrice, poiché questo – lo sappiamo da Laura Mulvey – è particolarmente esemplare e sintomatico sia del voyeurismo che del processo di soggettivazione dello spettatore. Soprattutto nel cinema classico e rappresentativo-narrativo, il desiderio è legato e correlato alle pulsioni: quelle sessuali (voyeurismo) e quelle dell’Io (narcisismo), perché l’oggetto è mancante e la castrazione incombente: psicoanalisi fallocentrica.  È un desiderio inscritto in una struttura molare – come il dente che tritura e sminuzza. Mulvey in “Visual Pleasure and Narrative Cinema” (1975) ha scritto che lo sguardo cinematografico è un complesso insieme di interazioni e nel cinema narrativo tale complesso è governato da una volontà proprietaria, maschilista e fallocentrica che nasconde la materialità del film e ostacola la presa di coscienza, la distanza critica dello spettatore dallo spettacolo. Se è così, allora un cinema che voglia sovvertire questa concezione paternale e padronale del mondo non può che mostrare la materialità del processo di registrazione del reale come nei film strutturali di Morgan Fisher, farla sentire con il flickering di Paul Sharits che “colpisce” ciascuno in maniera diversa chiamando lo spettatore nella dialettica di composizione e strutturazione del film (“questo film parla di te e a te, non al suo regista”, come nell’immagine-testo del “famoso” film di George Landow). Lo spettatore è invitato a leggere il film. Una tendenza che ha il suo modello più “letterale” e provocatorio in So Is This (1982) di Michael Snow, film fatto di parole, ma anche in Words Movie (1965) di Sharits, la cui “lettura” è alquanto ostacolata dallo scintillamento; e ancora: Poetic Justice (1972) di Hollis Frampton, in cui sotto la camera fissa si succedono i fogli scritti dello scenario del film. Sono tutti esempi tolti dal film d’avanguardia americano. Ma anche Godard, con altri mezzi, e già qui in Les carabiniers, facendo inciampare Michel-Ange, dapprima incantato-incatenato nella “situazione cinematografica”, nello schermo, fino al punto da strappare il velo, quasi un gesto chisciottesco-wellesiano, mostra la materialità della finzione, fa sentire i salti e buchi nel montaggio, accumula e fa interferire tra loro i segni. E in coda, una volta tolto il velo, nel montaggio secco, Godard concatena le immagini dello svelamento della finzione (lo schermo strappato dall’impacciato Michel-Ange) con quelle, ancora di repertorio, di cadaveri e bombardamenti. Godard, come Buster Keaton, Orson Welles e Ingmar Bergman, mette le mani perverse sul supporto.

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Christian Metz ha codificato tutti questi temi, già introdotti da Oudart, Baudry e Comolli, nella nozione di significante immaginario. La percezione filmica nella topografia del dispositivo – dalla quale non si può dissociare – è paragonabile non tanto a quella naturale su cui insiste l’indirizzo fenomenologico ma a quella onirica senza essere ad essa riducibile poiché è comunque una percezione reale e non solo psichica. In realtà la percezione psichica è più prossima allo specchio lacaniano secondo Metz. Il bambino vedendosi nello specchio, in un’immagine, impara riconoscersi, realmente. Ma nel cinema questa identificazione è negata; sullo schermo non viene riflesso il corpo dello spettatore. Infatti il soggetto che è spettatore non è più un bambino, si è già soggettivato ma al cinema ripete la soggettivazione, identificandosi più che con la macchina da presa e il personaggio, con se stesso. Lo spettatore anche indifeso dinanzi allo spettacolo visibile, immerso nell’oscurità, ridotto nella sua motricità, comunque sa, sa di percepire e di percepire qualcosa che è immaginario. Michel-Ange, particolarmente indifeso, lo scopre inciampando nello schermo. Lo spettatore conferma la sua soggettività nell’esperimento di sé, della scoperta di sé come soggetto che ha un sapere e che di questo sapere fa la sua stessa individualità.

Ancora una volta nel dispositivo cinematografico lo spettatore ha il ruolo di soggetto trascendentale. E ancora una volta questo processo è ambiguo. Infatti la divaricazione fra desiderio e oggetto si approfondisce sempre di più. Il cinema è reale, i suoi suoni e colori, i suoi spettacoli sono reali e a portata di mano, nei miei occhi, il cinema offre uno spettacolo che con il medesimo gesto anche ci sottrae. Il cinema esibisce i suoi prodotti come fossero reali e disponibili anche se sono sempre a distanza, anzi posti nell’inaccessibile. Lo spettatore è un po’ come Tantalo – come il Michel-Ange di Les carabiniers. Desidera oggetti che ha sotto gli occhi ma non può mai farli suoi: Michel-Ange vuole vedere il corpo nudo dell’attrice e vuole toccarla cercando di saltare nella vasca, ha la donna a portata di mano ma non può averla in mano. Gli oggetti visti sono assenti. Pertanto il processo di costituzione del soggetto è dilacerato, fessurato e abitato dalla mancanza e si inscrive sempre nel supporto del dispositivo, cioè uno spazio, un reticolato strutturato da dimensioni spesso latenti, di cui lo spettatore non è cosciente: è il simbolico, l’oggettività vissuta ma non saputa.

Il visibile è intangibile, il vicino chiuso nella lontananza, la percezione è reale ma l’oggetto percepito no. Questi tratti specifici del significante cinematografico distinguono il cinema dalla pittura, dalla letteratura e pure dal teatro, poiché il rappresentato a teatro è anch’esso reale, non immaginario come al cinema. Mentre Bazin insisteva proprio sullo spazio, la costruzione dello spazio, per articolare il suo discorso sui rapporti fra teatro e cinema. La realtà dello spazio teatrale (la scenografia, le tavole del palcoscenico, ecc.) fa sentire tutto il peso sullo spettatore teatrale che avverte questa materialità come finta, illusoria, di troppo. Viceversa quella del cinema è più trasparente e sottile, pesa meno, dunque la sua finzione è meno avvertita.

Come insegna Althusser lo spettatore può riconoscersi come soggetto solo se è vigile rispetto alla sua decentratura, poiché il centro di sé è nell’immaginario, nella formazione ideologica in cui erroneamente e disgraziatamente si riconosce, dunque solo comprendendo la struttura del discorso simbolico, solo nel disconoscimento – di sé.

Nella “situazione cinematografica” che negli anni Settanta diventerà dispositif – niente affatto naturale – si dà una percezione offerente – in cui si offre il mondo, il mondo si dà – particolarmente potente e invadente – le immagini e i suoni ci entrano negli occhi e nelle orecchie – al punto da rendere superflua, non necessaria, trascurabile una riflessione su quanto (ci) sta accadendo, sul modo di darsi di questo mondo così evidente. Insomma, non solo chiunque può parlare di cinema, ma, ancora di più, chiunque può non parlarne, cioè non pensarci. Che c’è da pensare? Perché Godard, come Warhol, si diverte a frustrare il voyeurismo spettatoriale? Il fatto è, appunto, che non si pensa mai a questo modo, al modo di darsi delle immagini e dei suoni. Mentre l’attenzione proprio su questo modo, l’indagine di questo modo, l’esposizione di questo modo, insomma la sua decostruzione, è ciò che avvicina il film moderno europeo, spesso chiamato allegramente e disinvoltamente “d’autore”, al film strutturale sia nordamericano (Michael Snow, Paul Sharits, Hollis Frampton, Joyce Wieland, Morgan Fisher) che britannico (Peter Gidal, Malcom LeGrice). Per esempio: il movimento, così evidente nel cinema tanto da differenziarlo dalla pittura e dalla fotografia, è un’illusione.

Il segno filmico non è riducibile alla sola relazione tra significante e significato. C’è un terzo ordine fra quello del significante e quello del significato, fra l’inquadratura, il racconto filmico e le sue idee. È la struttura che subordina a sé gli elementi in modo tale che questi elementi comunichino fra di loro, gli uni con gli altri, una forma di relazione per cui ogni elemento è soggetto all’attualizzazione della struttura. Il filmmaker strutturale tende ad esercitare un controllo su questo processo di produzione inteso come struttura. Solo così la prassi filmica si fa svelamento del dispositivo nascosto nelle pieghe della trasparenza e della costruzione del concetto di “realtà”, entrando in risonanza con l’impostazione di Althusser esplicitamente citato da Peter Gidal per esempio, ma anche Michael Snow si riferisce al marxismo – proprio come Godard, soprattutto negli anni a seguire i primissimi film: “All my films are attempts to control the type or quality of belief in the “realistic” image”.

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Engels conclude il suo libro sugli irochesi e l’origine della civiltà, con una citazione di Morgan in cui sviluppo della civiltà e dissoluzione della società sono, ancora una volta, intrecciati. La causa di questo corso dialetticamente catastrofico, per Morgan, è la proprietà. Godard fin qui e dall’inizio ha denaturalizzato il “proprio” del cinema, del suo linguaggio, perfino della politique des auteurs

Twas grief enough to think mankind

All hollow, servile, insincere;

But worse to trust to my own mind

And the same corruption there.

(Emily Brontë)

Godard forsenna il soggettile: il supporto materiale (che manda fuori asse), il “soggetto” e la soggettività sempre assoggettata (incantata-incatenata nelle immagini dello spettacolo). Lo forsenna per gettarlo nel mondo, in quello delle lotte rivoluzionarie inaugurate dal ‘68.

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Il cinema come istituzione e macchina assoggetta e soggettiva, interpella ancor prima che la narrazione abbia inizio e lo fa anche a prescindere dalla narrazione, da ciò che è mostrato e da come è mostrato. Il film – come insegna Hollis Frampton che preferisce questo termine, “film” (pellicola, supporto, mezzo che non ha movimento) a quello di cinema (che ha a che fare con l’illusione del movimento: kinesis) – può tuttavia debordare o forzare l’istituzionalità dell’appello macchinico del cinema. Occorre saper vedere il cinema in quanto istituzione, macchina, dispositivo e il film in quanto segno e sintomo che riflette, risponde o forza tale dispositivo. Lo spettatore stesso è testimone e osservatore ma anche specchio e immagine. Pensa ciò che dicono i personaggi, ciò che mostra il film, ciò che vuol-dire il cinema in quanto istituzione. Godard non ha solo decostruito, già nei film del primo periodo, il medium nell’accezione greenberghiana, come mezzo fisico e materiale, come supporto, ma anche in quella più larga di Stanley Cavell: come supporto materiale e insieme di convenzioni estetiche. Il film non è il riflesso del reale, non è uno specchio, e se lo spettatore è specchio, allora Godard tende sempre a frantumarlo e a dissociare realtà e rappresentazione. Il film ha da essere una reale rappresentazione, una realtà, quella della rappresentazione che Godard anziché dissimulare, come nella trasparenza hollywoodiana, denaturalizza. La rappresentazione non è solo una spettralizzazione e coagulazione della realtà, è anche realtà che, proprio per combattere la sua stessa fantasmatizzazione, deve essere esibita e decostruita. In Changer d’images (1982) Godard è come un organista alla moviola video, che articola e disarticola, attraverso la sovrimpressione, la musica delle immagini e dei suoni. Godard parla in macchina allo spettatore avvertendolo che l’immagine della televisione sta dietro, dietro lo speaker che parla, dietro il suo culo, prende da dietro, incula. Godard affronta lo schermo, non solo la page blanche supporto di una écriture, ma ciò che negozia e media tra sguardo e mondo, ciò che addomestica lo sguardo e toglie mistero al mondo. Changer d’images è un’altra, dolente e dolorosa, auto-confessione. L’immagine è un inferno, per questo se ne parla, la si commenta attraverso l’idealismo celestiale delle parole. 

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Cindy Sherman in Film Still #2 (1977) propone e mette in scena i cliché, gli stereotipi e i tipi della donna americana, la donna istituita dallo sguardo maschile, che corrisponde a tale sguardo – come in una sorta di orientalismo di genere. Sherman si guarda allo specchio come per riconoscersi e misurare se corrisponde a un qualche modello e, al tempo stesso, è guardata, come spiata e assoggettata a uno sguardo che ne fa un oggetto. Hal Foster ha scritto che i soggetti dei primi lavori di Sherman, tra il 1975 e il 1979, soprattutto i suoi Film Stills, i suoi soggetti-immagini, soggetti che si soggettivano assoggettandosi alle immagini, sono come colpiti, visti e catturati dallo sguardo, che è anzitutto lo sguardo fallocentrico, maschile, quello che riduce la donna a oggetto e immagine da consumare. Ma questo modello è esemplare anche per le altre interpellazioni che costellano l’ideologia materiale e immateriale che si deposita nei gesti e nelle parole di tutti i giorni. Anche se i suoi soggetti vedono. Ma lo sguardo sembra provenire da altrove, il Grande Altro, lo spettacolo del mondo cui siamo tutti exposed. Ma Sherman mostra i suoi soggetti femminili come intenti a vigilare, come se dubitassero del loro essere, come se il loro essere non corrispondesse a quell’apparire a cui sono chiamati a corrispondere, a rispecchiarsi nello specchio-schermo che vuole i soggetti femminili inchiodati in certe posizioni. Nella breve distanza tra la giovane donna truccata e la superficie riflettente nel suo Film Still #2, Sherman cattura lo spazio tra le immagini del corpo immaginario, immaginato e quello reale, che esiste in ciascuno di noi. Forse Picasso aveva mostrato questa distanza nel suo dipinto del 1932, Ragazza davanti allo specchio.

Aristotele sapeva che è difficile contemplare noi stessi a partire da noi stessi, ma questo è essenziale se vogliano addivenire alla dignità umana. Così come è difficile contemplare il nostro viso, se non riflesso in uno specchio. Ebbene, noi, scrive Aristotele nell’Etica Nicomachea, contempliamo noi stessi meglio nell’altro, nell’amico con cui parliamo, ci confidiamo. Attraverso l’altro ci conosciamo. Il bambino vedendosi nello specchio impara a riconoscersi. Ma nel cinema questa identificazione è negata; sullo schermo non viene riflesso il corpo dello spettatore. Infatti il soggetto che è spettatore non è più un bambino, si è già soggettivato ma al cinema ripete la soggettivazione, identificandosi più che con la macchina da presa e il personaggio, con se stesso. Lacan in una comunicazione del 1949 parla di questo “stadio dello specchio”. Il bambino si riconosce in quanto totalità e io riflettendosi nello specchio. La forma totale del suo corpo appare per la prima volta riflessa nello specchio, ma è un miraggio, un’identificazione immaginaria, poiché quella è, per l’appunto, un’immagine. La relazione tra l’organismo e il suo ambiente, anzi la realtà, è mediata da un’immagine, il riflesso nello specchio. Si tratta di un dramma, scrive Lacan. Perché fin da bambino il soggetto è come in uno specchio, catturato e ingannato da questa identificazione immaginaria. Attraverso lo specchio il soggetto passa da una immagine del corpo frammentaria e omerica ad una organica e ortopedica che diventerà una rigida armatura identitaria. Ma questo passaggio è sempre mediato da immagini, cioè da specchi. Il primordiale corpo-in-frammenti riappare sogni e perfino come immagine e ricordo fantasmatico di quando il bambino aveva ancora un corpo-senza-organi.

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Nelle performances congelate di Sherman il suo soggetto è visto e catturato dallo sguardo altrui, di uno spettatore, ma i suoi soggetti al tempo stesso, sono vigili, ri-flettono sullo sguardo. Nello specchio Sherman è in bilico, sulla soglia tra corpo reale e corpo immaginario, nella distanza scopre che non è il corpo che a quello specchio deve adattarsi. Lo specchio è lo screen, la catena significante, il network dei significati per cui la donna è questo e quello, la donna è interpellata a specchiarsi, a riflettersi in uno specchio che è anche schermo, come se lo specchio dovesse restituirle non l’immagine di ciò che è ma di ciò che è chiamata ad essere, di come dovrebbe apparire, come se il suo corpo dovesse correggersi conformandosi agli specchi immaginari della pubblicità, del cinema e delle rappresentazioni della donna. Quindi no, non deve adattarsi, truccarsi in modo tale da aderire all’immagine allo specchio per poter essere consumata dallo sguardo di quel maschio voyeur che le sta alle spalle. Sherman, come scrive Foster, sembra come rilanciare il suo sguardo e affrontare quello del voyeur. Lo specchio si è rotto, frantumato nel photo-text di Barbara Kruger You Are Not Yourself  (1981) – anche se quei frantumi possono essere le mille facce, i mille ruoli che, come ricordava Silvia Federici già a metà anni Settanta, la donna è chiamata a impersonare.

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Nel libro “scandaloso” del 1974, Speculum. Dell’altro in quanto donna, Luce Irigaray, spiega che ogni teoria del soggetto si trova sempre ad essere appropriata al maschile. Si tratta allora di costruire un immaginario anche per la donna, in modo che questa non resti oggettivata ad opera del discorso maschile. Irigaray, in polemica con Lacan e la sua teoria della fase dello specchio, introduce il simbolo dello speculum, specchio concavo che viene inteso come doppiezza, deformazione e non semplice specchio, copia del medesimo, piatta e uguale a sé stessa. Il riferimento allo “speculum” (contrapposto allo “specchio”) nel titolo dunque è un indiretto attacco a Lacan. Nell’infanzia del bambino e della bambina l’esperienza diretta con la propria immagine riflessa in uno specchio è fondamentale, in quanto è così che iniziano a “costruire” il “senso” della loro identità come individui separati dalla madre e dagli altri. Lo specchio, spiega Adriana Cavarero, che rinvia soltanto immagini, precede di poco la comparsa del Padre e della sua Legge, che è fatta di parole e sanziona lo status e il ruolo rispettivo di maschio (superiore) e di femmina (inferiore). L’ordine imposto dalla Legge del Padre, nella terminologia lacaniana, è definito “ordine simbolico”: i “simboli” sono le parole, i discorsi, che si distinguono, quindi, dalle “parole” e dai “segni”, che appartengono invece alla fase pre-edipica, che un’altra autrice, Julia Kristeva, definisce “ordine semiotico” (ordine della madre), in opposizione all’ordine “simbolico” (del padre). Lo speculum è uno strumento concavo che i medici utilizzano prevalentemente in ginecologia: serve a guardare, quindi, l’organo genitale femminile. Irigaray utilizza l’immagine dello speculum per spiegare che la donna “funziona”, nel ragionamento proposto da Lacan, legato, cioè, al Linguaggio e alla legge del Padre, come “specchio” per l’uomo che, rapportandosi alla sua immagine riflessa, la guarda nella sua condizione di inferiorità e vede se stesso nella sua condizione di superiorità. Ciò si applica anche all’ambito della sessualità. Cavarero nel libro Filosofie femministe scrive che il fal-logo-centrismo è l’atteggiamento che pone al centro di tutto l’uomo, il fallo, il discorso dell’uomo, la parola dell’uomo. Il fallo diventa, così, l’attività; la vagina il vuoto. Irigaray spiega che, se utilizzassimo uno speculum al posto dello specchio, noteremmo che quel “vuoto” non è un vuoto: è una realtà e sessualità ricca e molteplice. Ma Freud e il pensiero maschile vedono nella donna e nel suo organo genitale soltanto quel vuoto, l’assenza di ciò che, invece, l’uomo possiede (di qui la famosa “invidia del pene” attribuita da Freud alla bambina).

Attraverso la metafora dello speculum Irigaray vuole rappresentare la femminilità e sconvolgere la sintassi del discorso fallogocentrico. Lo specchio concavo concentra la luce e il sesso della donna non è totalmente estraneo a questo fatto. I padri del pensiero filosofico non l’hanno pensato. E nemmeno Freud, che definisce la donna come castrata, dunque come qualcosa sì, ma come un non-uomo; quanto alla madre e allo scompiglio che porta nella coppia attivo e passivo, visto che una qualche attività bisogna pur riconoscergliela, la madre sarà allora definita fallica, cioè dotata di un’attività che comunque appartiene al modello maschile. La donna è lo specchio in cui l’uomo deve potersi ritrovare. Questo è lo specchio incrinato da Cindy Sherman nel suo Untitled Film Still 2. 

Ma pure in À bout de souffle (1960) e in Le Petit soldat (1960) i personaggi fanno la toeletta, come in un film di Andy Warhol, in una cerimonia allo specchio che al contrario della fase lacaniana dello specchio approfondisce e quasi ri-vela la sfasatura tra interiorità e esteriorità.

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L’arte non è mai semplice rispecchiamento. Platone nella Repubblica attacca artisti e poeti. Il poeta e l’oratore riescono a far vedere agli altri ciò che hanno visto. Immaginazione, passione, entusiasmo e “lavoro” concorrono al “far vedere” che è caratteristico dell’arte. Il poeta e l’artista sanno costruire imagines. Ma Platone stesso nella Repubblica parlava di specchi rotondi e deformanti. Non solo. Nella Repubblica il filosofo scrive che la mimesis può essere in relazione con modelli ideali e non solo con la riproduzione della realtà sensibile. Si tratta di un motivo che feconderà interessanti linee di sviluppo della concezione platonica della “idea” fino a tutto il Rinascimento, come descritto da Panofsky nel suo libro Idea. Anche il realismo del classicismo cinquecentesco di Michelangelo non è mai semplice rispecchiamento, perché il reale è riflesso nello specchio dell’arte. Ma, come ricorda Jacques Derrida che decostruisce il Fedro platonico, la verità è la possibilità della sua propria duplicazione, come in uno specchio, riflessa nella non-verità, nel fantasma, nel simulacro.

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L’età moderna, almeno fino al Novecento inoltrato, è stata dominata da un certo regime scopico per cui, cartesianamente, l’uomo è essenza rispecchiante. Richard Rorty nel suo fortunato La filosofia e lo specchio della natura (1979) scriveva che anche per Aristotele la conoscenza è specchio della natura, ma nella sua concezione questo specchio non è letto da un Occhio Interiore. L’intelletto aristotelico è sia specchio che occhio, il soggetto è sensibile e senziente. L’immagine retinale è essa stessa il modello dell’intelletto che diventa tutte le cose. Mentre in Descartes l’intelletto indaga entità modellate sulle immagini retinali. Se in Aristotele gli enti sono sia nell’intelletto che nel mondo, in Descartes ciò che esiste sono soltanto rappresentazioni degli enti che stanno dentro l’intelletto, la mente, invenzione cartesiana. È l’Occhio Interiore che esamina le rappresentazioni in cerca di un segno che ne garantisca l’evidenza, magari un segno divino. L’epistemologia moderna e cartesiana nasce sul modello percettivo della finestra albertiana. In sintesi: regime scopico albertiano-cartesiano, cartesian perspectivalism. Dunque, nella definizione di regime scopico sono implicati un protagonista dell’arte rinascimentale e uno della filosofia e della scienza moderna, e questo comporta che la nozione di regime scopico è intradisciplinare e ha a che fare con processi che sono sia culturali che sociali.

Martin Jay ricorda di aver mutuato l’espressione “regime scopico” da un altro campo di studi e proprio dal libro di Christan Metz, Cinema e psicanalisi (1977) in cui l’autore – che impiega metodologie semiologiche e soprattutto psicoanalitiche – analizza processi mentali, aspettative, fantasmi, forme di identificazione che spingono lo spettatore al cinema. C’è un piacere, un’economia libidinale nel cinema che muove desideri e bisogni dello spettatore. Il cinema può essere indagato attraverso la semiologica, con gli strumenti della linguistica, per spiegare il funzionamento narrativo di un film, la sua significazione; si può indagare il cinema con un approccio storico, esaminando le sue infrastrutture tecniche e finanziarie, ecc. Metz in questo libro adotta invece la psicanalisi. Il film in quanto significante ha un significato “latente” e uno “manifesto”, come il sogno freudiano. Come il bambino, nella sua fase di formazione, si identifica nello specchio (“fase dello specchio”), si riconosce nello specchio, così lo spettatore si identifica con lo spettacolo proiettato sullo schermo, anzitutto con la macchina da presa (identificazione primaria), lo sguardo sul mondo, e poi con il punto di vista dell’eroe (identificazione secondaria).

Jay spiega che il regime scopico moderno – la pulsione a visualizzare e esperire il mondo in un certo modo – nasce con il Rinascimento e la filosofia cartesiana. La trasparenza della finestra albertiana si combina con la razionalità filosofica che stabilisce il dominio del soggetto che rappresenta nella sua mente l’oggetto. La prospettiva è monocolare, questo occhio è statico, fisso, è la “logic of the Gaze” di cui parla Norman Bryson, distinta da quella del “Glance”, cioè di una percezione incarnata, una visione in movimento, corporea. 
Prospettiva matematizzante e disincarnata che fonda quello che Bryson chiama “Founding Perception”, che a lungo è stata dominante non solo nelle arti o in filosofia ma anche nella vita quotidiana. Il “gaze” del pittore ferma, arresta il flusso dei fenomeni. Merleau-Ponty scriveva che la prospettiva pacifica l’essere che invece è brulicante. Jay spiega che questa prospettiva desensualizza e de-eroticizza. I nudi di Tiziano non sono in tensione con lo sguardo dello spettatore, non c’è radiazione erotica verso il “fuori” del quadro. Occorrerà aspettare Delacroix per un considerevole intervento del corpo nel frame pittorico e Manet per assistere all’intersezione, alla frizione, all’incrocio tra lo sguardo dello spettatore e quello dei personaggi dipinti. 

Ma Jay osserva che, oltre al prospetto albertiano-cartesiano e all’aspetto olandese, c’è un terzo regime scopico moderno, quello barocco e già messo in luce da Heinrich Wölfflin. Se il Rinascimento è lucido, lineare, solido, fisso e planimetrico, il Barocco è pittorico, multiplo e aperto, una continua tensione tra superficie e profondità. Se è specchio non è trasparente (cioè albertiano) ma nemmeno opaco (cioè non si sente come nella pittura olandese) ma è anamorfico e distorce. Si tratta di una pittura aptica. Il modello filosofico di questo regime scopico è Leibniz con il suo prospettivismo, la molteplicità dei punti di vista che confluiscono gli uni negli altri. Per Leibniz il soggetto non è un osservatore disincantato che sorvola le cose del mondo, le contempla dall’alto di un campanile, ma è punto di vista e universo, è parte del mondo ma è anche specchio in cui si riflette tutto il mondo. L’armonia prestabilita è quella del dialogo tra le sostanze, tra le monadi che sono mondi. Proprio come la città che è una ma anche molti se guardata dai differenti punti di vista, come la Veduta di Delft di Vermeer.

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Per l’Età moderna – con alcune notevoli eccezioni – la rappresentazione è spettacolarità-specularità. La finestra è uno specchio. L’esatta visibilità del referente è data dalla sua specularità che si coniuga con la sua assenza. Il mondo è lì sul quadro. Lo schermo rappresentativo è una finestra attraverso la quale lo spettatore contempla la scena rappresenta sul quadro come se vedesse la scena reale del mondo. Il quadro classico è concepito come finestra e specchio: finestra attraverso la quale guardare il mondo e specchio che riflette il mondo.  Questo regime scopico riflette la concezione trasparente del linguaggio: la mente è specchio della natura, il linguaggio è specchio della mente, le parole sono segni delle cose e dei pensieri.

Anche Gilles Deleuze ritorna sulla questione della finestra nel corso universitario dedicato alla pittura del 1981. La mano si libera dell’occhio, la mano che è stata incatenata all’occhio si scatena, la mano liberata dalla sua subordinazione alle coordinate visive. Non importa che la pittura sia astratta o meno, è quello che Deleuze chiama diagramma: quando la mano si scatena. È una pittura manuale e non visiva, è azione manuale. Sono gli occhi arrossati di Cézanne: dipingere è fare senza vedere, perché gli occhi sono arrossati. È l’occhio che entra in crisi, l’occhio carico di percezioni già pronte e cliché va nel panico. È quello che Wörringer chiamava “linea gotica”, la linea del Nord, della pittura settentrionale, barbarica. Diagramma è la crisi della pittura da cavalletto – che è anche il titolo di un saggio di Clement Greenberg. È quando salta il cavalletto. Tela, cavalletto, colori, pennelli, tutto salta per aria. La tela su cavalletto è come una finestra: il modello albertiano che regge la pittura fino a Turner e Manet. Mettere il quadro su un cavalletto significa procedere a una specie di astrazione visuale. La finestra è visuale, è la metafora di una pittura attraverso la quale ci affacciamo sul mondo, la metafora ottica della trasparenza. La pittura diagrammatica è quando la pittura non è più trattata come finestra. Mondrian si serviva del cavalletto ma la sua pittura non è più da cavalletto, la sua tela non è una finestra, la sua pittura è murale, come un muro, tratta la pittura come un muro e non come una finestra. Van Gogh e Cézanne possono anche portarsi appresso il cavalletto ma l’essenziale è che loro vanno a spasso, la loro pittura intensiva e geologica non è più una pittura da cavalletto. Van Gogh e Gauguin dipingono in ginocchio per mettere in crisi il regime di dominanza dell’occhio (che implica la postura eretta), così privilegiano una linea dal basso. La loro tela fuoriesce dal cavalletto.

Rembrandt non usa solo il pennello. I pittori impiegano anche spazzole, spugne, stracci. Pollock la siringa da cucina (amava cucinare con la pittrice Lee Krasner, sua moglie) e usa il bastone. Anche Rembrandt si serviva di bastoni. C’è tensione tra occhio e mano.

Quella di Mondrian è pittura murale, quella di Pollock è pittura sul suolo: Pollock stende la tela a terra, rovescia l’asse ortopedico della pittura, l’asse verticale e reintroduce l’animalità nella pittura. Tra il 1947 e il 1950 Pollock è stato il più grande pittore. E con quei tre-quattro anni è ancora tra i più grandi di sempre. 

Nella pittura murale di Mondrian c’è una linea e in quella sul suolo di Pollock un tratto. Spazzola, bastone, siringa da cucina, straccio, tratto e macchia per Pollock e tela, colori e linea per Mondrian ma in entrambi i casi il quadro non è più finestra. La rappresentazione entra in crisi, il modello albertiano della finestra esemplificato dalla famosa incisione di Dürer del 1525 in cui l’artista maschio si appropria del corpo femminile e di quello della natura.

Disfarsi della somiglianza. Per Deleuze la pittura non è mai stata figurativa. Se la figurazione è l’azione di fare qualcosa di somigliante, allora la pittura non è figurazione. La pittura disfa le somiglianze. Perfino Alberti scrive che la pittura deve imitare e superare la natura, ma se supera vuol dire che si disfa della somiglianza con la natura. E Raffaello ha detto che quando dipinge gli viene alla mente un’idea, ma questa, come insegna Platone, non assomiglia alla natura che semmai è una brutta copia dell’idea. Ciò che è presente in Cézanne ma anche in Giacometti – che parla di “rassomiglianza” – è una somiglianza più profonda, ontologica. Cézanne vuole disfarsi della somiglianza realistica, verosimile, figurativa, vuole disfarsi della rappresentazione del mondo per far sorgere il mondo nella sua presenza aurorale: geologia e non geometria. La presenza è ciò che emerge dal diagramma. Disfare la somiglianza per far sorgere l’immagine, disfarsi dei dati prepittorici, catastrofarli nell’atto del dipingere diagrammatico, per far emergere il fatto pittorico, l’immagine. Diagramma è l’istanza attraverso la quale il pittore si disfa della somiglianza per produrre l’immagine: somiglianza > diagramma > immagine. Disfare la rappresentazione che è il prima-di-dipingere, disfare la somiglianza, disfare le percezioni già pronte, disfare i cliché.

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Ritrovandosi nella strada deserta, dopo il film, dice Barthes, appena usciti dalla sala cinematografica, ci sentiamo disarticolati, irresponsabili, quasi in uno stato di ipnosi. Una condizione che richiede vacanza, ozio, disponibilità, momenti in cui si entra al cinema per lasciarsi andare al nero, abbandonarsi all’anonimato della sala buia, alla fantasticheria e all’erotismo diffuso, poiché la sala è il luogo della disponibilità. Il buco nero del tessuto urbano a maglie strettissime, dove finalmente si esercita la libertà del corpo. Lo spettatore del cinema ritrova qui il suo bozzolo di soggettività e libertà, nel nero che cancella lo spazio familiare, articolato, domestico e addomesticato, quello certo dell’home video ma anche del videogame. Il cono danzante perfora il nero e un lungo stelo disegna i limiti di una fessura, una serratura, una finestra attraverso la quale vedere, vedere attraverso il buco, praticare un foro nel reale. È quasi intontito, ipnotizzato appunto, e proprio questo intontimento, questa ipnosi cinematografica mi fa stare nella storia, lo vuole la verosimiglianza, ma al tempo stesso io sto altrove. Il cinema è un immaginario distanziato che implica e permette scrupolo e consapevolezza: (non) è come uno specchio. 

Ne L’Art de la conversation di Magritte la sera che cade può cadere senza rompere il vetro di una finestra, i cui frammenti ancora portatori, sulle loro lamine aguzze, sulle loro fiamme di vetro, dei riflessi del sole, sono sparsi sul pavimento e sul davanzale: le parole che nominano “caduta” la scomparsa del sole hanno comportato, con l’immagine che formano, non solo il vetro ma quell’altro sole che si è disegnato come un doppio sulla superficie trasparente: è La soir qui tombe. Secondo Foucault in Magritte non c’è somiglianza ma similitudine, la seconda gioca contro la prima. La somiglianza presuppone una referenza, la similitudine sviluppa una serie che non ha inizio né fine, non è ordinata da un modella che la precede, è come un simulacro, una copia, un’immagine che non ha modello. La pittura di Magritte, per Foucault, è raffigurativa ma non rappresenta niente, non è fondata sulla somiglianza ma sprofonda nella similitudine. La similitudine spezza l’identità a cui mira la somiglianza, l’identità, questa gabbia d’acciaio, riparo terribile che ci oppone agli altri. 

Per Schefer la percezione è il taglio di bisturi operato in questo sistema di immagini che è il mondo. Se vogliamo ancora parlare di rappresentazione, questa comunque non è mai una diminuzione della presenza, quella che per Deleuze emerge quando la rappresentazione scompare. L’immagine, come voleva anche Barthes, è virtuale e insieme “è là”. La cosa del mondo diventa immagine quando non è mai semplicemente incastrata nel contesto e nello sfondo ma quando si staglia e diventa un quadro. Questa immagine che siamo noi è il luogo di risonanza, scrive Schefer, delle immagini e dei suoni, la significazione si fa sensibile quando il senso giunge a noi. Schefer scrive che lo spettatore viene come gettato fuori di se stesso attraverso lo specchio del film. Esco fuori di me stesso entrando nel film che così visibile giunge al suo senso nella mia camera invisibile. 

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I White Paintings dei primi anni Cinquanta di Rauschenberg, influenzati da John Cage, smantellano il concetto di rappresentazione di oggetti; no subject, no image, no taste, no object. La critica della visualità e della pittura retinica inaugurata da Duchamp, la critica della pittura come rappresentazione di oggetti negli anni Sessanta diventa il programma di ricerca dell’Arte Concettuale. Le “structures” di LeWitt marcano la transizione verso un’arte che non solo integra visualità e linguaggio ma che mette in scena anche il conflitto. Il Red Square, White Letters (1962) istituisce il conflitto tra la forma delle superfici (“red square”) e le condizioni dell’iscrizione (“white letters”): il visitatore oscilla tra la posizione di viewer e quella di reader. Gli artisti impiegano il linguaggio e non solo non pensano più che la pittura sia una finestra trasparente ma sospettano anche del linguaggio in quanto sistema ideologico e catena significante a cui è sospeso il soggetto. I quadri di Jasper Johns insieme a quelli di Rauschenberg introducono un nuovo ruolo della superficie pittorica che il critico americano Leo Steinberg ha chiamato flatbed, per distinguerla dalla flatness del critico formalista Greenberg. È la nascita della post-modern art. Il quadro non è più una finestra verticale ma una superficie osservata durante la fecondazione mentre riceve un messaggio dalla realtà. I quadri di Johns sostengono l’ovvio, sono dei puzzle filosofici e cruciali per gli esperimenti degli anni Sessanta di LeWitt e Mel Bochner. 

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Nell’anno di Pierrot le fou Robert Morris propone dei cubi di specchi (Mirrored Cubes, 1965) esposti in un esterno, cioè forme che si distinguono dall’ambiente ma che sono in continuità visiva con l’ambiente, l’erba e gli alberi ma che non appartengono al paesaggio. La scultura in quegli anni diventa la somma di non-paesaggio (la costruzione di luoghi di Robert Smithson) e non-architettura (gli impacchettamenti di Christo, l’arte dello spazio di Robert Irwin). Scultura nel campo allargato, Krauss dixit. In Finger Touch  n. 1 (1966) di Bruce Nauman usa lo specchio per attaccare il concetto di centro, identità e io. Nello specchio di Nauman non si può distinguere tra il “vero” paio di mani e l’immagine riflessa che non sarebbe “vera”. Non c’è modo di fare una sintesi. Inoltre il visivo è anche tattile: immaginiamo la torsione delle mani sulla fredda superficie di uno specchio che a sua volta, in quanto eterotopia, rilancia l’ambiguità: l’opera si fa vertiginosa. 

In Lotte in Italia (1970) di Godard ad un certo punto, appare uno specchio. Il Groupe Dziva Vertov mostra il volto dell’ideologia che secondo Louis Althusser è speculare: fa avere agli individui una funzione di specchio. L’ideologia ha sempre la stessa voce ma interpella un’infinità di individui, assoggettandoli e costituendoli come soggetti. Assoggetta con il potere dei suoi mezzi di richiamo e appello e soggettiva dando agli individui un luogo e un codice di assegnazione e comunicazione, in cui potersi rispecchiare come studenti, figli o militanti o donne. I film godardiani di questo periodo indagano proprio lo stadio dello specchio della società dello spettacolo, dell’informazione e della comunicazione in cui gli schermi sono superfici riflettenti che rimbalzano le immagini sugli individui assoggettandoli e soggettivandoli, sospesi all’incrocio di una molteplicità di schermi, un nodo, una matrice, una rete di dispositivi audio-visivi in cammino verso digitalizzazione della società di controllo. Una caverna deterritorializzata. L’uomo del Novecento si è sempre più riconosciuto nelle immagini del cinema, identificandosi nello specchio dello schermo cinematografico, all’inverso, poiché nello specchio la nostra immagine è sempre rovesciata, la destra è la sinistra. Il reale è rovesciato nell’immaginario. La percezione al cinema è, al tempo stesso, anche rappresentazione, un di più (un senso in più come diceva Edoardo Bruno) che alimenta i nostri desideri allargando potenzialmente la nostra coscienza e perfino la nostra sfera d’azione ma insieme può anche moltiplicare i fantasmi che vampirizzano la nostra stessa vitalità. Un approccio farmacologico?

Toni D’Angela