Nel 1927 Albert Renger-Patzsch raccoglie sulle pagine di Das Deutsche Lichtbild alcuni proponimenti legati alla pratica della fotografia. Nel 1920, dopo aver servito l’esercito tedesco durante la Prima Guerra Mondiale, aveva aperto il suo studio fotografico in Bad Harzburg. Insistendo sulla specificità del medium, il suo aspetto meccanico, tecnico («la fotografia possiede una sua tecnica, e mezzi propri» egli scrive) , Renger-Patzsch si batte affinché la fotografia si emancipi da ciò che egli si affretta a considerare “pittorialismo”, un voler rincorrere effetti pittorici:
Il segreto di una buona fotografia, che, come qualsiasi opera d’arte, può possedere qualità artistiche, risiede nel suo realismo. Per rendere le nostre impressioni della natura, di piante, animali, il lavoro degli architetti e degli scultori, le creazioni degli ingegneri, la fotografia si dimostra uno strumento affidabile. Non apprezziamo ancora a sufficienza l’opportunità di catturare la magia delle cose materiali. La struttura di legno, pietra, e metallo può essere mostrata con una perfezione che va al di là delle possibilità della pittura. Come fotografi, possiamo esprimere i concetti di altezza e profondità con magnifica precisione, e nell’analisi così come nella riproduzione del movimento più veloce, la fotografia si conferma leader indiscutibile1.
Il dibattito che sulla stessa rivista si innesca con Moholy-Nagy riguarda appunto la questione del “realismo”. Pur condividendo l’idea che la fotografia debba sviluppare propri mezzi di espressione, c’è un fondo “realista” nell’approccio di Renger-Patzsch che sembra allontanarlo dagli intendimenti di Moholy-Nagy. Eppure, paradossalmente, la pretesa ultra-oggettività (la nuova oggettività) che Renger-Patzsch ricerca, finisce per rovesciarsi in qualcosa di vertiginoso, una specie di sogno: la realtà viene colta in maniera inedita, proprio grazie ai mezzi fotografici (obiettivi, tempi di posa, emulsioni). Il risultato è misurabile in un libro pubblicato nel 1928: Die Welt ist schön. La figura umana, gli oggetti, il paesaggio, le architetture, la tecnica, i siti industriali, la natura, la città: tutto quanto appare in scatti che sembrano strappati dal sogno di un mostro meccanico, o di un sonnambulo. La realtà è insomma colta nel suo lato fantastico, ma senza ricorrere a particolari trucchi: scelta delle ottiche, dettagli, dimestichezza di un occhio ben allenato (il fantastico – potremmo dire, citando Bazin – «è consentito solo dal realismo irresistibile dell’immagine fotografica. È essa ad imporci la presenza dell’inverosimile, a introdurlo nell’universo delle cose visibili2).
Pensavo a tutto questo vedendo Three Landscapes di Peter Hutton. Davanti alle sculture anonime che si susseguono nel primo dei tre paesaggi, filmato nei dintorni di Detroit, presso River Rouge, una zona marcatamente industrializzata dove Hutton è cresciuto e ha lavorato (negli anni ’60 e fino ai primi ’70 si industria come marinaio sui Grandi Laghi3), si possono cogliere, quasi in sovrimpressione, i meravigliosi scatti di Bernd e Hilla Becher, che – forti della lezione di Renger-Patzsch – a partire dalla fine degli anni ’50 hanno a loro volta fotografato siti industriali, fabbriche, lasciando che nella precisione dell’inquadratura emergesse una qualità quasi mentale, innescando una specie di corto circuito rispetto alla realtà che avevano sotto gli occhi.4
Stabilimenti d’acciaio (alcuni ancora in funzione), l’Ambassador Bridge che collega Detroit con Windsor, nel Canada, sui cui cavi camminano due figure umane : queste architetture possiedono qualcosa di magnetico ed enigmatico. La forza con cui Hutton le inquadra è davvero prossima a quella di un fotografo (fino a pochi anni fa, egli separava le inquadrature con blocchi di nero, come se egli considerasse il proprio lavoro simile a una specie di crono-fotografia: la precisione del quadro incontra il respiro meteorologico, atmosferico, impressionato e trascinato su una striscia di pellicola da piccoli ingranaggi, bielle, eccentrici – la precisione automatica della macchina).
La realtà è lì, in tutte le sue gradazioni: per farla emergere nella sua complessità basta saperla osservare. Il fumo che esce dalle ciminiere, la granulosità della pellicola, la disposizione delle linee: per un istante – tanto è ipnotica l’inquadratura – queste strutture in acciaio, queste masse architettoniche aerodinamiche segnate dalle intemperie, dall’usura, finiscono col somigliare a nature morte – vasi di fiori, dettagli d’argenteria, volumi in vetro o porcellana: catastrofe della figura. C’è qualcosa di sublime, per esempio, nel modo un cui Hutton riesce a catturare una sproporzione (riesce a amplificarla) tra il paesaggio e la figura umana che vi si muove intorno. È una specie di sentimento che attraversa molti suoi lavori (At Sea): la vastità del paesaggio, di questi tre paesaggi (tre movimenti), è soggiogante. Come se il monaco di Friedrich deambulasse tra moderne rovine industriali, o nel paesaggio cromatico dell’Hudson River, che Hutton conosce a menadito, protagonista della secondo movimento: tra il verde boschivo, l’azzurro del cielo e il giallo dei campi di frumento. Mentre un minuscolo trattore imballa il fieno. Del diserbante viene spruzzato: una coltre pulviscolare si appropria dell’inquadratura, mischiandosi al verde del terreno e alla granulosità dell’emulsione. C’è qui, ben presente, quell’irresistibile realismo dell’immagine fotografica di cui parlava Bazin, ma trasfigurato, reso quasi onirico, sublime appunto, grazie a semplici qualità fotografiche, ottiche, meccaniche: ciò che il mezzo stesso permette.
E la dimensione di una realtà trasfigurata esplode completamente nel terzo paesaggio, filmato in Etiopia, nella depressione di Dallol, dove nel 1968 Robert Gardner aveva realizzato un breve film, Salt, filmando appunto gli Afar, con i loro cammelli, intenti a recuperare sale in una piana desertica, forse il luogo più depresso di tutta l’Africa. È lo stesso Robert Gardner, nel 2010, a chiedere a Hutton se aveva voglia di recarsi nel Dallol, per aggiungere materiale a ciò che egli aveva già filmato. Uomini muniti di accette separano il sale dalle pietre. Gesti ripetuti, essenziali. Concreti. In un inferno climatico. Il risultato è strabiliante. Il nulla a perdita d’occhio. Resta solo la linea dell’orizzonte che sembra fondere, tanto è violento il calore che la terra emana. Ed è come se Hutton si fosse recato in questo luogo infernale solo per scoprire con i propri occhi se l’immagine che aveva visto nel film di Robert Gardner, simile ad un’allucinazione – la terra che fonde –, esisteva davvero:
Una delle inquadrature più inquietanti del materiale filmato da Gardner è una ripresa a distanza di una carovana di cammelli che attraversa l’orizzonte. A causa delle intense onde di calore, il paesaggio dà l’impressione di fondere. Non si è sicuri che sia qualcosa di reale o un’allucinazione. Sono ossessionato da quell’immagine – è come qualcosa che si debba vedere giusto prima di morire, una memoria antica legata al viaggiare5 .
Die Welt ist schön? Dell’entusiasmo modernista per la cultura industriale e la potenza della tecnica rimane ormai probabilmente solo un lontano ricordo: ipnotiche sculture mentali. È come se, immersi in quella che chiamiamo “globalizzazione” non fossimo più abituati a cogliere sfumature, o differenze. Vedendo Three Landscapes riusciamo invece a comprendere quanto le differenze siano ancora cruciali e soprattutto esistano. Queste differenze sono sproporzioni, colte nella vastità inafferrabile, quanto terrificante, di un paesaggio sublime.
Rinaldo Censi
1Alfred Renger-Patzsch, “Ziele”, Die Deutsche Lichtbild, 1927, cit. in Christopher Phillips (a cura di), Photography in the Modern Era. European Documents and Critical Writings – 1913-1940, The Metropolitan Museum of Art, New York 1989, p. 105. Traduzione nostra.
2André Bazin, “Vita e morte della sovrimpressione”, in Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano 1986, p. 17.
3Luke Fowler, Peter Hutton, “Lived Experience”, Mousse Magazine, n. 37, febbraio 2013.
4«Attivi a partire dagli anni ’60, raggiungono il più alto grado di “sculturizzazione” attraverso la fotografia “pura”, con le loro serie di monumenti dell’età moderna (delle “sculture anonime”) come cavalletti di miniera, altiforni, acquedotti, prefabbricati di periferia, in cui la precisione dell’inquadratura e l’accumulo costituivano il vocabolario di una organizzazione immaginaria dei volumi – vale a dire una scultura mentale.» Cfr. Michel Frizot, “La surface sensible. Support, empreinte, mémoire”, in Michel Frizot (a cura di), Nouvelle histoire de la photographie, Bordas-Adam Biro, Paris 1995, p. 723.
5Luke Fowler, Peter Hutton, “Lived Experience”, Mousse Magazine, cit.