Sull’acqua, nell’aria e nella luce, negli occhi, il castello galleggia: un effetto di riverbero lo vela e disvela allo sguardo, lo fa tremare in liquidità di cui il cinema, a volte, non fa che mimare degli stati pittorici, per trascrivere, o descrivere, degli stati mentali, degli stati d’animo, più che degli effetti di realtà. È una delle condizioni necessarie di tutto quello che partecipa alla creazione poetica: attribuire agli elementi dei dati che falsifichino le prospettive, che le facciano tremare, le rimuovano, le squilibrino, gli tolgano ogni ancoraggio nell’organizzazione delle certezze, le deportino verso zone dove non si pensava di poter ritrovarle, in attesa di ancoraggi diversi, diversamente situati. Tra l’ultimo testo di C.B., L’autografia di un ritratto, e il primo che ha scritto, Nostra Signora dei Turchi, l’evento comune e singolare è – dall’inizio della scrittura, quindi, fino alla sua fine -, questa forza, sempre all’opera, che spiazza, rivolta e sconquassa.
I numerosi episodi che riferiscono della beatificazione e dell’agiografia di C.B. riportano, aldilà della sua precocità nel fatto teatrale, di una forma estremista d’aristocrazia che confina con un certo dandismo, così come del culto provvisoriamente immanente di questa forma particolare dell’estremismo che si costituisce in aristocrazia d’artista, e che cancella le forme di ogni mondanità – nel senso più ampio del termine – che non decide e non crea, operazioni che, decisone e creazione, vanno in parallelo. Ciò che oggi può entrare a far parte della riflessione critica, è in primo luogo la parure specifica dell’apparenza, più che quella del reale: quest’ultimo – o la sua deformazione quotidiana in realtà -, non è mai interessato a C.B. Non può e non sa, e non vuole, farsene nulla: né nella vita “privata”, né, ancor meno, nell’elaborazione precisa e rapida di un’opera che funzionerà presto come una macchina da guerra. Ciò equivale a dire che il vero tema di C.B. non è tanto il posto dell’uomo nel mondo, la sua ontologia, il suo ruolo nei campi disponibili del pensiero, quanto le condizioni stesse della sua possibilità materiale e della posizione che gli spetta, dunque la sua messa in scena: il modo o i modi di vivere e le loro espressioni non sono dunque che una “illusione” di cui il corpo è situazione e luogo – il tempo e lo spazio, se si preferisce –: il corpo, preso nella sua forma di luogo affettivo e mentale, in una dimostrazione il cui supporto non può che essere la scena.
Soltanto quest’ultima è irriducibile, allora, compresi i percorsi per raggiungerla, il resto è e diventa “il resto”, ovvero la banalità di ogni biografia. La scrittura, la poesia e qualsiasi altra forma non sembrano più che mere funzioni subalterne, necessariamente piegate a quest’invasione totale della scena, e del teatro, al fine di farne risaltare la funzione principale – perché la più illusoria e inafferrabile –, ovvero l’attore. Questo obiettivo è presente sia in Autografia di un ritratto che in Nostra Signora dei Turchi: nelle tonalità di una serie d’ingiunzioni che non prevedono affatto di venire contraddette e in cui si sente l’eco di parole conosciute, un’eco di Artaud, l’Autografia si dispiega come l’ultimazione di un programma in cui l’estremo portato fino in fondo – troppo spesso preso per arroganza – trova le sue conclusioni in un’intransigenza che sarà stata la condotta della vita e dell’opera. L’Autografia non traccia una storia dei suoi luoghi, anche se, a forza di essere detto e fissato, vi si può seguire un percorso da cui vengono fuori delle tappe privilegiate: l’insieme tecnico de-psicologizzato, Amleto, Shakespeare, Laforgue, Lorenzaccio, Pinocchio, la phonè, la macchina attoriale. Si capisce subito che non sono testi teatrali, né autori, né situazioni, ma più potentemente degli stati logistici, delle controffensive lanciate contro le determinazioni di una “ufficialità pubblica” che non ha mai smesso di lodarsi da sé: ed è questo compiacimento del lodarsi da soli che, checché se ne pensi, è mancato a C.B.
La questione diventa, da questo punto in poi, un’altra: di che scena si tratta, di quale teatro? È significativo che, appena arrivato, C.B. lasci il luogo in cui si trova, che si tratti dell’Accademia o del rifiuto spesso realizzato di andare in scena. Inoltre lo sviluppo del fatto puramente teatrale verso forme di concerto vocale o di recitazione poetica, segna la sua non disponibilità e la sua intransigenza verso quel che non gli sembra adattarsi a ciò che, lui, designa, con i termini teatro, scena, attore. Il fatto è che C.B. arriva al teatro, nel 1958, con un’idea forte di ciò che non vuole: non vuole un teatro che non ha mai smesso di compiacersi nei suoi panni provinciali, che ripete all’infinito una lezione classico-pirandelliana ormai logora, per lo più già detta, tramite un artigianato capace soltanto di situarsi nella sfera dei comprimessi – artistici e creativi, ma anche ideologici e politici –; non vuole nemmeno un teatro che comincia, in quel periodo, a situarsi nel potere della persuasione mediatica e nelle sfere di divisione di potere culturale: e il testo sulla Ricerca teatrale nella rappresentazione di Stato, elaborato a Venezia nel 1989, ne è l’atto di denuncia finale. C.B. arriva al teatro dalla vita e non dal teatro, e deve sfrondare da quest’ultimo le false verità con le quali viene martoriato, restituendogli un’aura e uno slancio eroico i cui detentori furono, in Italia, una sparuta stirpe di attori.
C.B., quindi, ripensa il teatro come una globalità, reinterpretando delle modalità antiche già espresse su questo stesso terreno: è un modalità di riflessione, forse già una filosofia del teatro, che non ha più nulla a che vedere con le filosofie che si sono succedute nella disputa sul teatro, senza tuttavia mai calpestarne i palchi: concentrare una somma vitale che fa dell’ “attore” il “genio” essenziale, l’ “artifex” di ogni realizzazione: regista, scenografo e scenotecnico, fonico e datore di luci, l’attore deve essere, al contempo, come un nuovo Eliogabalo, il Demiurgo e la rovina di se stesso, il suo passato e il suo avvenire.
Sfrondare dunque, e devastare, fare il vuoto. In Nostra Signora dei Turchi – un romanzo, un testo teatrale e un film, un’opera che ha quindi sperimentato tutti i supporti espressivi –, si percepisce come la costruzione di due stanze provvisorie, una camera e un’anticamera, mimi umoristicamente la scena di un teatro che ha per quinte la strada, e passa inesorabilmente attraverso la sua decostruzione, tramite la sua rovina, senza tuttavia proporre altre soluzioni oltre a quelle del racconto stesso, oltre all’evidenza dell’instancabile catastrofe offerta come modello dell’illusione. Il castello e l’acqua, le piante e gli animali, i monaci, le donne e le madonne, i vivi e i morti, i vivi-morti e i morti-vivi che affollano il racconto sono altrettante proiezioni che non servono, oltre a quello della propria narrazione, che un unico progetto: raddoppiare la finzione attraverso la finzione della finzione. Un movimento continuo sorge dalle macerie di anima e corpo, un movimento multiplo, verticale, orizzontale, diagonale, che vuole interrogare ad ogni costo e cancellare i dati di una realtà troppo piatta – quella di un io che non smette di dirsi nelle sue sconfitte – affinché possa servire da modello a una messa in scena. L’azione come movimento che scava e modula lo spazio del suo vuoto e della sua vacuità.
È la struttura dell’estremismo teatralizzato di C.B. che gli permette di sfuggire ai fenomeni che relegano in sistemi di comunicazione e trasmissione. La sua cultura teatrale, elaborata non come rimozione analitica, né come rivisitazione post-modernista, ma come la sola possibilità di creazione, si esprime nelle sue affermazioni tutte al negativo: non si fa teatro con il teatro, non si fa cinema con il cinema. Fino all’espressione di un autobiografismo sconcertante: non si da vita con la vita. Eppure, ciò che viene descritto è l’atto teatrale, determinato nella sua impotenza in quanto volizione, la ripetizione di quel nulla che la costituisce: gesto, parola, attitudine. Questa cultura della teatralizzazione, assieme alla sua componente puramente illusoria, riappare con precisione in Hermitage, il suo primo medio-metraggio, o in Nostra Signora dei Turchi, con una postura determinata senz’altra mediazione oltre a quella del corpo dell’attore, il corpo attoriale, che investe il corpo dell’opera, l’antico corpus. C.B. si ritrova solo in questo lavoro sull’opera corporale: la sua filmografia, con Hermitage, Nostra Signora dei Turchi, ma anche Don Giovanni, così come l’insieme della sua esperienza teatrale, situa il corpo in piedi, davanti alla propria materia, una materia falsamente estasiata o esaltata.
Sono opere che, sotto l’apparenza dell’intimismo più inquietante – ciò che C.B. chiama “il privato” –, negano tutti gli stati e tutte le stratificazioni dell’interiorità affettiva e mentale del corpo, che lo sventrano con una crudeltà senza precedenti, anche se quest’ultima ha potuto essere supposta e teorizzata in relazioni violentemente biografiche, come è stata l’esperienza di Artaud o, già allora, quella di Lautréamont. Un intimismo che mette in scena la passione come illusione motrice delle volontà possibili e immaginarie del corpo, una realizzazione e una derealizzazione che sembrano essere l’epicentro di tutta la sua meccanica creativa, dal romanzo al cinema, al teatro. In Hermitage, come in Nostra Signora dei Turchi, l’accento è posto, parallalemente al corpo, su quel che si può chiamare “romanzo della cosa”, sulla linea costituita dalle lettere, lettere e romanzi che sono materialmente, a partire dal XIX° secolo, da Goethe fino a Thomas Mann, il corpo necessitante e bisognoso della creazione.
Il corpo, sacralizzato da una tradizione complessa e spesso contraddittoria, è dunque sistematicamente lavorato, disorganizzato, devastato. In Hermitage, tutto ciò inizia con le scarpe cambiate all’inizio del film, prosegue nei letti disfatti e rifatti ma in modo che siano ancora più umoristicamente disfatti di prima; nelle masse di cuscini in cui il corpo cerca, senza trovarla, una sistemazione mai adeguata alla finalità che si propone di ottenere. Le cose vengono in tal modo convocate per assistere alla rovina meticolosa e metodica del soggetto, testimoni mute di una storia del mondo che la stessa del corpo che la centralizza, la concentra e che, per esprimerla, la disperde. Quanto al corpo, esso porta in memoria un’esperienza teatrale complessa in cui l’eco essenziale è tratta dalla messa in scena de Il Rosa e il Nero, ispirato a Il Monaco di Lewis: i volti luccicanti di strane perle colorate che li squamano conferendogli qualcosa d’animalesco, perdono, in Hermitage o in Salomé, ogni metaforizzazione attraverso l’enunciato diretto di un volto perlato di scabbia, di un cancro del derma, di una peste che lo spoglia progressivamente della pelle e gli conferisce la scura bianchezza di una figura mortuaria o di qualcosa di inesorabilmente passato: il tempo stratificato e illimitato di tutte le culture. A questa configurazione, corrisponde inoltre la complessa serie di gesti che servono a esprimere l’impossibilità del corpo a volere, a potere: gli ostacoli – gli impedimenti, per riprendere il termine di Gilles Deleuze – che distraggono e scorcertano, che finiscono per spostare altrove l’impossibile, un altrove che non ha luogo, non ha spazio. Anche il corpo si muove ruotando su stesso, si rannicchia invece di sedersi, infila dei pantaloni su un asciugamano che rende impossibile ogni vestizione, il che implica allora u nuovo spogliarsi, ma adesso in quanto gesto di spoliazione, in una lotta patetica con una formulazione dell’impossibile come puro atto.
A questi meccanismi della materia, corrisponde un piano ulteriore delle espressioni mentali, confermate nel guardarsi costantemente in uno specchio – che non deve essere valutata secondo le regole d’una modulazione narcisistica e ancora meno di uno stadio dello specchio. È semplicemente il corpo alla prova che non smette di guardare nel proprio riflesso il valore del possibile; un atto, dunque, puramente mentale in cui la visione viene inghiottita dallo sprofondamento illusorio nel proprio falso “in immagine”, mettendo in evidenza l’improprietà e l’inadeguatezza di ogni riflessione che tenti di pensarsi come un destino, di sforzarsi in qualche destinazione che non sia, in termine di percorso, altro che un’ennesima trappola mentale. L’attesa del tempo reale si è trasformata in un tempo “d’Opera” e in un tempo “d’opera”, come indicano la colonna sonora o le citazioni che in Nostra Signora dei Turchi rimandano all’Opera: un tempo sempre livido, un presente sciupato di passato, fuori dall’azione di ogni attualità a parte la propria, immersa nel gioco di ciò che sovra-dice e tradisce. Un tempo che è lo stesso del teatro, del cinema e dell’Opera: un tempo finto, o un tempo di finzioni, un tempo d’illusione.
L’immagine del corpo viene devastata appunto dalla propria storia: il suo corpo di uomo si trasferisce dalla propria scena a quell’altra che sembra non appartenergli, quella del femminile, e passa attraverso la sfera dell’ermafroditismo che confluisce percettibilmente nel corpo di un’omosessualità in cui il maschile si rivolge a se stesso. L’insieme di queste diverse corporalità viene deriso dalle sudorazioni in cui viene immerso come in altrettante febbri del corpo e dell’essere, viene reso impotente. Se ne libera il segno di una lascivia morbosa, profana e atea, che tenta tuttavia di pregare, e che lascia sorgere l’evocazione-distruzione dei miti che l’hanno costruita. Le allusioni culturali sono numerose, da quella, esplicita, al corpo neroniano, a quella, più sfuggente ma insistente, di un Eliogabalo artaudiano o arbasiniano, un Eliogabalo auto-smembrato, tagliato e rattoppato nelle cloache. Allusioni che riprendono le foto di von Gloeden, con la stessa carica voyeuristica, scartata in seguito come impedimento a venire e soprattutto come inefficacia dello sguardo voyeur che si guarda, o si contempla da sé, in una forma simulata dell’altro in quanto oggetto. L’Opera del passato – nelle diverse specie di corpo, concetto, immagine, suono – viene ascoltata di nascosto e ne deriva il fatto di bere sbavandosi su tutto il corpo, di riflettere per non pensare e dunque di lacrimarsi addosso per il concetto, di guardarsi per non vedersi o di vedersi in un ingrandimento che confina con una rappresentazione d’aborto per l’immagine, e infine una cacofonia melodica come strumentazione del suono.
Le stesse modalità si ritrovano in Nostra Signora dei Turchi, dove le difficoltà in cui viene messo il corpo avvicina tentativi e dimostrazioni ancora più pericolose, dal ritrovarsi legato e impedito davanti alle fiamme, fino alla caccia condotta contro se stesso – sparare su l’”io”, sul “sé” nelle diverse apparenze d’una realtà interamente giocata sulla scarsa credibilità delle finzioni. Il corpo – metodico e meticoloso – organizza ancora una volta il proprio disastro. Esso moltiplica gli ostacoli contro i quali schiantarsi, si lancia dal balcone – con la glossa doppiamente umoristica che sottolinea il gesto e la sua vanità: se da un lato, cerca di non essere visto, dall’altro, commenta: “Non era la prima volta che si buttava giù dalla finestra”. Appare in seguito ferito, incerottato e fasciato. La rete inestricabile delle bende, è allora strumento di una significazione inadeguata e del resto sottomessa a un trattamento particolare nel quale finisce per occupare il campo visivo con un tono umoristicamente trionfante. Anche lì appare il volto, prima tumefatto per le cadute, le scissioni, poi ingessato di bianco, nel richiamo a un morire costante. La scena del corpo devastato è portata fino al parossismo delle sue dizioni, senza frammentazioni metaforiche; il corpo s’investe direttamente, dapprima nella totalità dei crani, poi in un solo telaio-bara in cui si lascia trasparire l’apparente illusione della vita.
Tutto ciò che potrebbe distrarre da questa operazione contro un sé soggetto viene accuratamente ricondotto alla distruzione, alla privazione del senso, non attraverso un non-senso, ma più efficacemente tramite la dizione volontaria dell’inanità assoluta del senso. In tal modo, il castello assume, attraverso le parole, un’anima e un corpo e diviene forma viva in un contrappunto della vita stessa; le diverse dissoluzioni abbozzate dalle descrizioni negano il genere stesso del reale dal quale sono esse stesse fomentate, lo dicono nella sua inesistenza, e rimandano infine ai travestimenti di una scena mentale, enunciata dal corpo dell’attore, con delle formulazioni la cui carica erotica apparente è forte, ma in cui le posture umorizzano e separano definitivamente il corpo da ogni credibilità, da ogni autenticità. Il corpo di C.B., homo illudens, si guasta, dopotutto, in una grande prova d’altruismo, più che nell’interrogazione di un Altro sognato da tanto pensiero contemporaneo, ma percettibilmente inesistente. Emergono gesti di una lentezza moribonda: o il volto nascosto dagli oggetti, una rosa rossa e scura, per esempio, una candela spenta e riaccesa, o l’immagine immersa in un muro, in una zona di non visibilità, o, al contrario, nella proposizione dell’atto più intimo – farsi una puntura – in aperta piazza, al mercato, nel modo più pubblico possibile.
È così che torna il motivo letterario, suggerito dalle lettere che scrive, spedite o no, in cui C.B. trapassa la matrice originaria del romanzo, in un rapporto di seduzione reso impossibile dall’incesto tra lettera e romanzo, nella suggestione di voler prendere tutto “alla lettera”. Anche qui, il discorso in sé, che non avviene mai, o che avviene nella sfera malinconica, nostalgica delle supposizioni a venire, termina in un “blaterare” su di sé, un dire senza dire, così come capita che si faccia senza fare, sempre suggerendo attraverso delle mediazioni inopportune. Si spia dalla serratura, si scompone, si gioca sulla struttura frastica in modo da mettere in evidenza un’assenza generalizzata – senza dubbio di pensiero e di concetto – : come, per esempio, la frase “questa santa è una donna”, che burla il detto “questa donna è una santa”; o la poeticizzazione anfigoricamente teatralizzata della lingua con espressioni come “un prato di camomilla”, “dei nugoli di follie”, “ti ci vorrebbe una barbarie”, “un gradino al di sopra della festa” o “Voglio fare di me un imprevisto”, che cancellano con una manata – quella dello scrittore – ogni postura di cogitazione e di dubbio.
Uno dei monologhi più poetici di C.B. nasce dall’uso di una certa forma di patetico: il monologo sui “cretini”, sull’incessante e ineffabile “divenir cretini” che infiamma l’opera e segna uno degli aspetti essenziali di questa maniera teatralizzata di scrivere o di fare cinema:
Ma quelli che vedono non vedono quello che vedono, quelli che volano sono essi stessi il volo. Chi vola non si sa. Un siffatto miracolo li annienta: più che vedere la Madonna, sono loro la Madonna che vedono. È l’estasi, questa paradossale identità demenziale che svuota l’orante del suo soggetto e in cambio lo illude nell’oggettivazione di sé, dentro un altro oggetto. Tutto quanto è diverso, è Dio. Sei vuoi stringere, sei tu l’amplesso, quando baci, la bocca sei tu.
Divina è l’illusione. Questo è un santo. Così è di tutti i santi, fondamentalmente impreparati, e anzi negati. Gli altari muovono verso di loro, macchinati dall’ebetismo della loro psicosi o da forze telluriche equilibranti – ma questo è escluso. È così che un santo perde se stesso, tramite l’idiozia incontrollata. Un altare comincia dove finisce la misura. Essere santi, è perdere il controllo, rinunciare al peso, e il peso è organizzare la propria dimensione. Dov’è passata una strega, passerà una fata. Se a frate asino avessero regalato una mela metà verde e metà rossa, per metà avvelenata, lui che aveva le mani di burro, l’avrebbe perduta di mano. Lui non poteva perdersi o salvarsi, perché senza intenzione, inetto. Chi non ha mai pensato alla morte è forse immortale. È così che si vede la Madonna.
È nell’insieme di queste dimensioni che vanno cercate delle spiegazioni alle prospettive dell’opera, proprio nel non vedere quel che si vede, nel vuoto fatto attorno al soggetto “in preghiera” e nel suo travasamento estatico e illuso “nell’oggetivazione di sé dentro un altro oggetto”. Descrivere così il passaggio da un corpo “ferito a morte” a un corpo morto, a un cranio, a un altro sé che non sarà mai se stesso, significa far passare delle materie indicibili in una sfera che soltanto la creazione artistica può captare, dove la totalità negata s’inserisce e si arresta in una “divina illusione”, che è una delle descrizioni possibili dell’atto teatrale o cinematografico. Vi è in queste modalità una moltiplicazione della percezione alla ricerca di un “peso” che riesca a comporre questa dimensione fuori dal tempo, fuori dallo spazio che gli viene costantemente assegnato. L’immagine – letteraria, teatrale, cinematografica –, nella sua lacerazione e nella sua distruzione, non tende a ricostituire l’essenza nella quale è stata martirizzata, quella essenza che la riporterebbe tramite la forza delle cose a un’espressione ripetuta del soggetto, ma tende alla sua trasposizione in negativo – un negativo di pellicola – per enunciarne la non-essenza, il caso, il carattere forsennato e alienato, fino alla prostituzione e alla dannazione. “Divina è l’illusione”, dice colui che vuole diventare cretino, creando il proprio luogo scenico: “Un altare comincia dove finisce la misura”, parodiando precisamente ciò che lui si aspetta dal teatro.
Questo tema, in ogni caso, non annuncia il nulla, né si definisce rispetto a quest’ultimo. Annuncia forse di più, e meglio, un vuoto, una cavità, nella quale tuttavia le cose diventano potenzialmente diverse, situate in un divenire che gli riconosce una stasi sognante, un momento di tregua, qualcosa che potrebbe essere anche una morte. Il corpo bendato, che tossisce, che muore, come una splendida “Traviata” macera, si ricompone nella figurazione di una morte, momentanea, statica, assoluta, in cui rassicura la tregua del suo possibile, nel quale essa evolve come in un plasma, in un’assenza di gravità, e porta con sé tutto il campo delle immagini: immagini smaltate di fuochi d’artificio, immagini di lettere strappate, non riscritte, non spedite, gettate via definitivamente. Attraversare il tempo, le molteplici stratificazioni del tempo. Il corpo, l’immagine, la cosa scritta attraversano tutti i loro tempi, dal paganesimo ad oggi, non per ricostruirli, né per raccontarne una malinconia disperata o la catastrofe, ma per negare e distruggere ogni ricostituzione possibile del reale così come ci è dato o che ci è imposto pensare. Il corpo allora non può che volersi trapassato attraverso la santificazione dell’atto, e negare ulteriormente il presente dei suoi passati: “Basta – dice in Hermitage – è finita con chi mi vuole bene”.
La “disiscrittura” di Shakespeare attraverso Amleto, Romeo e Giulietta, Riccardo III, Otello e Macbeth, merita un posto a parte, così come i film Don Giovanni, Salomé, Un Amleto di meno, presentano delle prospettive differenti. Esse partono da elaborazioni di materiali puramente teatrali o letterari, equivoci in ragione dei riferimenti scelti da C.B. Il lavoro su i testi e soprattutto ciò che C.B. chiama “togliere di scena” tendono a far scivolare Shakespeare verso Marlowe, o verso un’ironizzazione di Freud o una umorizzazione di Laforgue, il che è un modo di forzare il presente del passato di questi testi teatrali, o il presente che tenta di mettersi in gioco in quello che è diventato, ma soprattutto un modo di rovinare le presenze del passato. Così Amleto è diventato, prima, Hommelette for Hamlet, operetta inqualificabile da J. Laforgue, in cui non resta altro che un filo sottile del testo iniziale, che impedisce di seguire le motivazioni paterne, filiali e familiari che avrebbero dovuto enunciarlo e strutturarlo, attorno al quale vengono sviluppate delle elaborazioni che spostano e negano il riferimento e la continuità di un percorso scenico; fino all’ultimo Hamlet Suite, in cui il dramma si trasforma in una malinconia che gioca con la citazione operistica e una struttura musicale di violenta tensione. Il punto nodale di Macbeth, presentato in due diverse versioni a Parigi, è costituito da una rielaborazione dell’Opera italiana che “disiscrive” il testo shakespiriano e tira fuori le potenzialità in atto dell’illusione della scrittura scenica e del Bel canto dell’Opera verdiana.
Parallelamente a questo lavoro teatrale che cancella la prima lezione e mette in evidenza tutto quel che è occultato, Don Giovanni è costruito partendo da Shakespeare, con il sonetto 123 sul Tempo, continua sulla musica del “Catalogo” di Mozart, prende a prestito il suo motivo a Le plus bel amour de Dom Juan di Barbey d’Aurevilly, recita alcuni passaggi della vita di Santa Teresa di Lisieux, ricostruisce delle immagini “letterarie” che sarebbero piaciute a Poe e a Lovercraft, elabora delle ricostruzioni raffinate di quadri celebri, da Velàzquez a Ingres. Così come Salomé e Un Amleto di meno riprendono delle situazioni precise di Oscar Wilde e di Shakespeare, non soltanto per contestarle, ma soprattutto per strappare ai miti le parole e i modi attraverso i quali continuano fino ad oggi ad essere sopra-vissuti. In questo senso, i primi lavori come gli altri sembrano prendere la loro ispirazione e la loro materia al Romantik in generale, più specificatamente alla sua decadenza storica, e le messe in scena che seguono aprono a una dimensione in cui l’idea di teatralità “oscenizza” tanto il romanzo quanto il cinema e il teatro. E tuttavia, anche qui, il corpo artefatto subisce le sue decomposizioni: meno nella presentazione del catalogo, puramente parodica, che non si scontra con il volto femminile in quanto tale, ma piuttosto in riferimento al “Tempo” shakespiriano, al “donnesco”, al “femminesco” espresso da C.B. Si tratta di una decomposizione che tende, come in Nostra Signora dei Turchi, ai segni di una santificazione macerata nei tormenti delle visioni, e di una veggenza che finisce per vedere al di là e sconvolgere: e questo è già un puro atto dell’opera di C.B.
Il finale di Capricci, C.B. mima parodicamente un finale alla Godard, con l’attore tumefatto che si sistema meglio prima di morire sul petto della protagonista, e si chiude in chiave umoristica, nel rifiuto di ogni rinvio al senso e alle significazioni. Questo film è percorso, più che dall’idea della morte, da una decomposizione progressiva del corpo, nell’assembramento di personaggi anziani che errano in una vita che di reale ha soltanto quello che viene immaginato dalla demenza letterale delle immagini. In Salomé, al di là dell’inizio parodico della crocifissione in quanto azione inutile e impossibile per deficienza del soggetto, e che sviluppa una linea tematica che fa irruzione nella storia “personale” di Cristo con Erode, la scena finale ripropone il degrado-rinascita del corpo, ma ripreso in chiave tragica con la caduta progressiva della pelle del volto assolato del protagonista; allo stesso modo Un Amleto di meno è proiettato su morti avvenute e a venire e su tumefazioni ironicamente degradanti.
L’insistenza voluta su un’espressione che tenti di ridefinire un gioco al di fuori delle forme sfinite del reale, non è soltanto uno stilema: questa ripetizione non è una compulsione senza riflessione. Essa segna in modo più che formale la forza della creazione di C.B. e sottolinea in primo luogo i termini stessi dei problemi che pone il fatto di mostrarsi in scena. Ne viene dato un esempio accecante da una corrispondenza interna all’opera: è il gesto ripetuto all’infinito di strappare, così come costantemente mostrato in tutte le edizioni di Amleto: in modo ripetuto, Orazio, strappa, dilania e divora tutto quel che ha appena letto dal testo. Se il testo è un corpo, se l’opera ha un corpo, devono essere letteralmente distrutti, così come deve essere distrutta l’immagine di questo corpo, di questo corpus, che costituisce la transustanziazione dell’attore in scena – al cinema, al teatro. La critica di fondo si sviluppa contro ogni filologismo che intrappoli il corpus, quello testuale quanto quello attoriale. Qui si concentra la postura etica e politica di C.B. rispetto a un sapere organizzato, capace soltanto di ripetere la lettura del corpus e non di ricercarne le nuove possibilità, in un “divenire testo” o in un “divenire attore”, che agisce attraverso la sottrazione di una testualità, che tende a martirizzare e ad alienare il corpo, e attraverso l’aumentare paradossale della potenza del corpo stesso. Devastare il corpo diventa allora più importante che distruggerlo: resta nell’atto una testimonianza la cui forza enumera i crimini perpetrati dall’essere storico e dall’essere, per il fatto di rimanere in quelle storie dei testi – dai romanzi alle lettere, ma anche tutto quello che è stato scritto per non essere messo in scena ma per essere vissuto in privato, che deve “restare nel privato”, come dice C.B. – e per il fatto di essere corpo in questo contesto.
Un’operazione molto simile era stata eseguita da Lautréamont alla fine del XIX° secolo contro la contestualità generale del romanzo e dell’ispirazione francese. Evoco qui Lautréamont perché C.B. lo inserisce nel suo S.A.D.E. come riferimento essenziale, e perché in esso si ritrova l’uso della parodia distruttrice della contro-lettura ancora più che del controsenso. Ma potremmo evocare anche il caso di Nietzsche rispetto alla contestualità filosofica del XIX° secolo. E sempre, devastare un corpo, un corpus che a forza di ripetere, non ha fatto altro che scimmiottare perché incapace di andare, se non al di là, almeno fino ai limiti dei suoi propositi. È questa storia che è stata agitata in modo ripetuto da Artaud, in Eliogabalo, nelle Lettere da Rodez, in Succubi e supplizi, tramite l’invenzione della potenza di un “corpo senza organi” per attraversare biograficamente e letterariamente – nella pagine scritta, martirizzata, strappata con la quale, dice C.B., “ha crocefisso la lingua francese” – la postura-impostura del corpo, il passaggio dalla dislocazione alla disarticolazione e alla disorganizzazione del corpo. L’invenzione più potente di C.B. si situa in questa sfera: devastare il corpo non per distruggerlo desacralizzarlo, ma per disorganizzarlo, ovvero strapparlo all’organizzazione, disorganizzare quest’ultima in quanto sistema sociale chiuso. E quindi disorganizzare la figurazione dell’immagine del corpo all’interno del corpo sociale, non con una finalità da martirio, ma per minare e distruggere i meccanismi dell’immagine del corpo e del testo in quanto principi organizzativi.
L’opera di C.B. s’inserisce in vari modi nelle caratteristiche apparenti della “ripetizione”, non nel senso che questo termine ricopre per la recitazione teatrale, quello della “prova”, ma nella riformulazione o nella rilavorazione degli stessi temi di fondo caricandoli di altre mire, di altre aggressioni. Il lavoro sulla voce, la phoné, che si elabora attraverso la dizione poetica di autori come Majakovski, per sfociare sulle riflessioni creatrici su Dante, Campana, Leopardi, Hölderlin e D’Annunzio, appartiene a questa modalità della ripetizione capace di ricreare, ogni volta, delle tonalità di forza e di compattezza: poetiche di una sole voce possibile, quella di un Orfeo all’inizio dei suoni, senza parole, di un Orfeo agli Inferi degli archetipi, che, per primo, inventa e dice l’atto esteriorizzato di una “parola” poetica che, non trovandosi nella significazione, esclude ogni dicotomia tra significante e significato.
In questo insieme di atti ripetuti, Pinocchio è l’altra elaborazione che, assieme ad Amleto, spinge la riflessione di C.B. verso le funzioni dell’attore, da burattino-manichino fino alla determinazione finale di quella che ha chiamato, in seguito, la macchina attoriale e che sfocia nelle costruzioni vertiginose e terribili dell’ultimo C.B., con Lorenzaccio, La cena dei cretini, Achilleide. C’è, nella costituzione di Pinocchio, un modello che contraria la deformazione costante e il rimodellamento sistematico che l’attore subisce nel teatro attuale attraverso l’ondata di drammaturgie dimentiche di una storia dei modi teatrali, che occulta tutte le sperimentazioni sull’attore in questo secolo, Meyerhold e Artaud, tra gli altri. Dal momento che la situazione dell’attore è l’aspetto più direttamente visibile, essa finisce per portare in esse gli altri aspetti e per essere, tra tutti, il più inquietante, il più segretamente insondabile e mobile. L’attore C.B. è la “lettera viva” di ciò che si definisce spettacolo, presentazione, rappresentazione, prova, ripresa o, più globalmente, teatro, termini nessuno dei quali sembra tuttavia convenire alle operazioni critiche inerenti a questo effimero specifico dell’attore C.B. in scena – che del resto le ha sistematicamente rifiutate in quanto categorie prive di senso.
Pinocchio nasce dall’inizio, nel momento stesso in cui C.B. dispone la questione dell’attore come impossibilità oggettiva ad “essere” e a “crescere”. Come in Collodi, la fata ricorda al manichino che cos’è un burattino:
Ma tu non puoi crescere […] Perché i burattini non crescono mai. Nascono burattini, vivono burattini e muoiono burattini. (Cap. XXV)
A questo diktat, che dichiara la distanza incolmabile tra l’umano che non è e il manichino che è – ma la metafora vela appena la distanza tra l’uomo adulto e l’eterno bambino –, risponde une delle ultimissime repliche di Pinocchio trasformato in uomo:
Addio, mascherine! […] Mi avete ingannato una volta, e ora non mi ripigliate più. […]Ricordatevi del proverbio che dice: «I quattrini rubati non fanno mai frutto». Addio, mascherine! […] Addio, mascherine! Ricordatevi del proverbio che dice: «La farina del diavolo va tutta in crusca». […] Addio, mascherine! Ricordatevi del proverbio che dice: «Chi ruba il mantello al suo prossimo, per il solito muore senza camicia». (Cap. XXXVI)
Nel lavoro di C.B., che resta fedele al testo di Collodi, questa serie di battute “proverbiali” viene enunciata in voce fuori campo, che conclude così l’insieme degli effetti e dei movimenti tramite una drammatizzazione inattesa, l’umanizzazione estrema della voce fuori campo, con la sua immersione nel quotidiano. Il manichino è diventato uomo: la sua voce risuona come una sentenza aureolata nella profondità dell’eco, un’eco che la sottrae alla favola invece di doppiarne la profondità, e fa entrare il personaggio della finzione scenica nell’eventualità di una storia psicologizzata dell’umano, nel fuori-gioco del reale. L’ “Addio” si immerge nella sua stessa fine, impossibile e senza seguito, in una storia che non può più restare in scena, che è fuori campo, fuori da ogni teatro possibile. Equivale a dire che anche la scena, così come l’attore e la pagina scritta, è incapace di accedere al reale. La dizione della voce fuori campo di C.B. conclude, in ogni caso, la serie degli eventi e apre a un nuovo destino del personaggio il cui sviluppo rischierebbe di essere talmente in accordo con la storia, che i contorni precisi di quel destino non interessano più all’attore. La scena è finita: la vita può allora ricominciare, forse, ma senza l’attore, fuori dal palcoscenico. Inoltre, la frase finale de-termina e conclude anche il destino – il destinarsi – della favola, staccandosi da questa e rinviandola alla sua eternità, immutabile e lontana.
Come l’attore, Pinocchio, è di legno, anche se parla; Pinocchio non è nato da una donna (ciò ricorda il Macbeth di Shakespeare), è stato intagliato e levigato – forse anche castrato – da un padre falegname che gli fa credere di essere suo figlio (ricorda quel che San Giuseppe, nella tradizione cattolica, non ha saputo fare). Pinocchio non ha madre e si rende subito conto che, in fin dei conti, sarebbe terribile averne una. Ciò che separa C.B. da Collodi, è il rifiuto reiterato del primo a crescere, così come il fatto di non aver nulla a che fare con l’avere una madre che lo distoglierebbe dal suo divenire bambino e dal suo divenire femminile (fatesco): quello che vuole, è avere in sorte un’infanzia eternamente gioiosa. Questo Pinocchio si situa nella trasgressione e nella distruzione dei valori dell’adulto paterno e materno, attraverso l’elaborazione di un’idea della recitazione, ma che deve passare per delle mise en abyme necessarie, compresa la propria. E l’attorialità di C.B. opera la sottrazione continua del tempo della morale e della storia, è il gioco di un tempo senza tempo, di un presente che non smette di dividersi e moltiplicarsi in altrettanti presenti che ci sono quanti più giochi possibili. Pinocchio ritrova una curiosità affabulatrice simile a quella dell’Asino d’oro di Apuleio. Né soggetto né oggetto, ma dandy e aristocratico del gioco, non è altro che indecisione di un io errante e inespresso, sorpreso dalla voglia o dal desiderio di qualcosa di cui non sa nulla ma che non smette di presentire.
Non si tratta per C.B. di riattualizzare Pinocchio, di riconoscergli un “presente” che non ha mai avuto. Si tratta piuttosto dell’ennesima variazione creativa stregata o illusoria per dire il vuoto del presente dell’attore in scena – l’attore-manichino – e per dire il vuoto di un tempo assente della scena che mostra questa vacuità. L’uno e l’altra – il manichino e la scena – sono confrontati alla necessità di definirsi come non-soggetti di un evento che li oltrepassa (in quanto creazione) e li riposiziona nel entre-deux della loro situazione senza storia, costantemente ai limiti dell’irrazionale, e che impone loro le esigenze di una postura e, in questo caso, di una postura di scena. Ci sono allora dei presenti che si moltiplicano come delle presenze occasionali, senza passato né futuro, fomentati dalle forme che assumono l’organizzazione musicale o l’intensità cromatica, spinte fino ai limiti dell’inverosimile in C.B. Ci sono inoltre dei presenti del teatro che cercano invano di fissarsi in una forma “attestabile”, mentre invece non smettono di tracciare delle linee di fuga, lontano dal testo, lontano dalla rappresentazione.
Sorgono soprattutto delle forze gioiose che giocano a negare ogni forma drammatica, anche se passano per formalizzazioni paradossali. L’armonia apparente di C.B. è una terribile “gaia scienza” che non nutre l’illusione con delle semplici illusioni. È una critica parodica, ma senza per questo essere meno violenta e aggressiva, della situazione dell’attore, una ridefinizione paradossale di questa situazione di non-soggetto, un commento alla reiterazione di una vita del legno nel quale sono disegnati e scolpiti i corpi e i movimenti dell’attore – una parodia della coazione a ripetere –, così come il presente in quanto modello non può essere altro che coazione a ripetere. Ciò che viene detta, è la caricatura di una facies che non cambia nulla al vacillare dei riflessi luminosi, in una gestualità che è stereotipia stroboscopica per il semplice fatto di essere appunto incapace di riconoscere o dedurre una recitazione del soggetto, ma di essere lì a sproposito, fuori dalla propria via. Nelle edizioni radiofoniche, ancor più che nelle versioni sceniche, gli statuti della grammatica, della sintassi e della dizione sono sconvolte nei monologhi di Pinocchio, come se cercasse invano di definire la propria localizzazione d’attore, il luoge delle sue gesta, il luogo della sua dizione, nel riconoscimento impossibile del linguaggio e attraverso il linguaggio, tanto quello che proferisce quanto quello dal quale è proferito, senza la capacità di interferire nella struttura di questa prova simulata della vita.
Anche se la piccola frase della fata sul manichino non torna costantemente nel teatro di C.B., essa sostiene tuttavia dal suo luogo appartato di proferazione e come in eco, tanto le “distrazioni” della scrittura scenica che la sua gestualità in generale: il modello non ha nulla a che vedere con un’imitazione dell’umano, ma con la ri-trasformazione costante – la variazione – del burattino che permette l’abbandono e la propria finzione. È attraverso il burattino che C.B. giunge alla formulazione di un nuovo concetto per il teatro, che chiama macchina attoriale, alla quale proibisce il ruolo, i sentimenti, la vocazione all’interpretazione e alla rappresentazione. Di colpo, ciò che viene rotto, è lo spazio del presente previsto come sezionamento di un tempo o di un luogo specifici del teatro. Gli eventi che attraversano Pinocchio, Macbeth, Lorenzaccio, Achille o Pentesilea non sono né in un tempo né in un luogo di testimonianza, malgrado l’evidente volontà di modello morale di ogni testo: è diventando umano, smettendo di parodiare rigorosamente la memoria impossibile delle storie del mondo, che finisce la vita del bambino-manichino, del bambino-attore. È a questo punto di transizione impossibile che si formula e si mostra, in C.B., lo splendore della “vita bambina” come potenza amorosa, una potenza d’avvenire e di divenire contro la falsità del reale; è ciò che C.B. chiama “restare nel privato”, ovvero essere fuori dall’io, smarrendosi in un’erranza narratrice senza scopo, formalmente conservata da un’immediatezza che è come un venir meno costante della parola: quest’ultima vive e muore nell’istante stesso della sua proferazione, senza più nessuna nozione del tempo, né dello spazio o della profondità, essa si immerge in una “genealogia” dell’inorganico fatta di forza e potenza di ritorno.
Jean-Paul Manganaro