I.
Il 10 aprile 1952 Kazan testimonia a Washington davanti alla HUAC. Il 21 marzo 1999, introdotto da Scorsese e De Niro, ritirerà l’Oscar alla carriera, lui che ne aveva vinti due per Gentleman’s Agreement (1947) e On the Waterfront (1954). Molti applaudono e si alzano, qualcuno applaude ma non si alza (Spielberg) e pochi non si alzano e nemmeno applaudono. Nella sua autobiografia pubblicata nel 1988 Kazan non ha mai rinnegato la scelta di denunciare i suoi ex-compagni. Del resto Kazan aveva già rifiutato di dirigere a teatro la Vita di Galileo del comunista Brecht, che invece Losey mise in scena. Ma certo se non avesse subito tutte quelle pressioni – anche dal produttore Zanuck – Kazan avrebbe mantenuto la linea adottata durante la prima convocazione dell’HUAC. Kazan non è credibile quando giustifica il suo atto con volontà di dare un contributo alla difesa del suo paese e nel 1952 era un regista di successo, più di Losey, quindi avrebbe potuto scegliere un’altra strada. Diciamo che il contesto non aiutò. In quegli ci si domandava se si dovesse permettere ai comunisti di insegnare nei college. Adorno, Horkheimer e Marcuse insegnavano nelle università degli Stati Uniti. Tra il 1950 e il 1954 il senatore repubblicano McCarthy scatena la sua caccia alle streghe fra attori, sceneggiatori e registi, intellettuali e professori e scienziati ma addirittura anche tra i funzionari del Dipartimento di stato, covo di infiltrati rossi. Il maccartismo si sviluppa negli anni della democrazia dei consumi che Gunter Anders chiama “totalitarismo delle merci” o “totalitarismo morbido” e ovviamente della Guerra fredda che “scoppia” nel 1947 con la Dottrina Truman e il Piano Marshall. Rivendicazioni sociali, richieste di salario minimo e così via erano immediatamente associate al comunismo, alla minaccia e al complotto contro la nazione e il suo benessere. Migliaia di persone persero il posto di lavoro, le forze di sinistra furono stroncate e il clima culturale ne risultò avvelenato per anni.
Il maccartismo si inscrive oltre che nel contesto geopolitico della Guerra fredda anche in quello culturale che lo torico britannico Edward Thompson, di orientamento marxista, ha caratterizzato come “Decennio apatico” in cui le persone “guardavano a soluzioni private ai mali pubblici”. “Le ambizioni private”, ha scritto lo storico, “sostituirono le aspirazioni sociali”. E le persone sono arrivate a sentire i problemi come personali e allo stesso modo le lamentele e le sofferenze degli altri sono sentiti come affari che riguardano solo queste altre persone. E se una connessione tra le due cose si palesa, le persone tendono a sentire – nell’apatia prevalente – che loro sono impotenti a produrre qualsiasi cambiamento. Dopo l’orrore della WWII e della Shoah emerge sempre più una logica di ripiegamento e chiusura nel proprio benessere via via crescente nell’Occidente. È la società dell’affluenza e dei consumi, consumi di elettrodomestici, automobili, oggetti ma soprattutto di immagini e stili di vita – ma anche della “gioventù bruciata” che, provando disagio per tutto quel conformismo intrecciato al comfort, si ribella, è irrequieta: non ha fatto la guerra ma nemmeno vuole limitarsi solo a consumare e a replicare i modelli comportamentali e i valori dei genitori che invitano alla prudenza e al rispetto delle tradizioni.
Il contesto in cui matura quel tradimento di Kazan è il mondo amministrato, come lo chiamava Adorno, cioè l’organizzazione, il complesso di scopi istituiti e diretti, una razionalità conforme allo scopo: far profitti, eliminare il dissenso, uniformare e formare consumatori. L’uomo è gettato nel mondo amministrato che con i suoi processi modella il suo comportamento. La società del capitalismo avanzato, maturo e automatizzato è quella delle grandi concentrazioni economiche. In questo mondo amministrato gli uomini perdono il carattere, l’impronta del loro io, l’io è solo una zavorra che ostacola la carriera. L’uomo nel mondo amministrato del fordismo è chiamato a sviluppare le sue capacità di lavoro e a godere delle merci esposte nelle vetrine quando consuma. L’idea di uguaglianza che un tempo fu anche dei rivoluzionari borghesi, ormai è diventata standardizzazione. Quello che vale per le merci deve valere anche per gli uomini. La pubblicità annuncia ogni merce come fosse una nuova concezione della vita. In questa società, scrive Adorno, gli uomini sono “liberi di cambiare tombino”, sono pronti a svolgere qualunque mansione. Il suo pensiero è stereotipato (e in questo contribuisce anche il clima da “Guerra fredda”), dopato dalla comunicazione dei mass media, sempre più chiuso negli automatismi, separato dagli altri, invitato a godere solo del proprio pseudo-individualismo. Del resto Kazan lo sapeva molto bene e lo mostra in A Face in the Crowd (1957).
II.
On the Waterfront come specchio deformato e deformante delle vicissitudini dell’individuo Kazan ma anche della polis? Una tragedia greca? Forse. Certo è un film marca una svolta. Il decimo per Kazan, ne girerà altri nove. Prima di questo altri nove. Un film cerniera, una dis-giunzione. Film premiato e forse ancora oggi il suo film più conosciuto. Non il migliore. Quasi tutti quelli che lo seguiranno sono più intensi e insieme più delicati.
Roland Barthes nel 1957 pubblica Miti d’oggi. Anche in questo caso una delle opere più celebri del suo “autore”, non la più interessante, dopo avrebbe scritto testi molto più significativi e anche delicati, sfumati e neutri. Barthes parla del film di Kazan in uno dei saggi che compongono quel libro importante, anche perché non solo monumento di un certo modo (strutturalista-semiologico) di interpretare segni, oggetti e fenomeni sociali e culturali, ma anche in quanto documento di un’epoca travagliata e segnata dalla Guerra fredda e dai processi di decolonizzazione nella cornice allegra e disinvolta del consumismo, nel mondo schiumoso e morbido dei saponificanti e dei detersivi.
Nel piccolo essay “Un operaio simpatico” Barthes attacca il famoso film di Kazan. È un “buon esempio di mistificazione”. A Barthes interessa il funzionamento del testo e non la biografia dell’autore, cioè se ha tradito oppure no. Il bel portuale indolente interpretato da Brando è risvegliato dall’Amore e dalla Chiesa impersonati da Eve Marie Saint e Karl Malden. E non possiamo non essere d’accordo. Tutto questo è facilmente ravvisabile nel narrato, in quella che Barthes direbbe struttura denotativa del récit. Anzi, per essere più precisi è quello che Barthes chiamerà il livello informativo e il livello simbolico che certo sostanziano le forme di questo film: l’operaio e la sua redenzione. Non siamo ancora dalle parti di quello che Barthes in un intervento sul senso del cinema pubblicato per i «Cahiers du Cinéma» chiamerà senso ottuso. Era il 1970. Al livello dell’informazione e anche del simbolo, dell’aneddoto narrativo e della significazione in effetti il film di Kazan è mistificatorio.
Barthes è severo. Nel film è all’opera quello che lui chiama “vaccino della verità”: “si trasferisce su un piccolo gruppo di gangsters la funzione di sfruttamento del grande padronato, e mediante questo piccolo male confessato, localizzato come una leggera e gradevole pustola, si distoglie l’attenzione dal male reale, si evita di nominarlo, lo si esorcizza”. I proletari sono fiacchi, solo gli apparati di Stato possono salvarli, e mediare tra loro e lo Stato c’è la Chiesa che redime dal male. Brando è un eroe positivo, un nuovo Cristo, la folla lo segue. Appunto, lo segue fin dentro il luogo di lavoro e sfruttamento. E anche noi possiamo seguire Barthes che sottolinea come lo spettatore, identificandosi, partecipi anche lui al calvario di Brando che infine rientra nell’ordine, lui insieme ai portuali e agli operai di tutto il mondo. Conciliato con la Chiesa e lo Stato. Per Barthes il film manca di straniamento brechtiano. “Brecht avrebbe chiesto a Brando…”, scrive Barthes.
Ma, osserviamo, il metodo di Kazan a teatro e nel cinema non è quello brechtiano. Kazan non è Losey. E Brando, secondo quel “Metodo” che è di Kazan, più che Brando è Terry Malloy – lo testimonia anche il lavoro sul trucco della faccia quasi per imbruttire il divo Brando. Non si può non condividere la lettura barthesiana ma questa è sociologica ed è perfetta se applicata ai soli livelli informativi e simbolici del film. L’analisi barthesiana di metà anni Cinquanta di questo film manca di sottigliezza, non è un’analisi testuale. Barthes si ferma al senso ovvio ma non tocca quel senso ottuso di cui parlerà nel 1970. “Uno sfogliato di senso che lascia sempre sussistere il senso precedente, come in una costruzione geologica”, così Barthes definirà il senso eccedente di un film.
Durante l’istruttoria della “Crime Commission”, verso la sua conclusione, Kazan stacca dallo spazio dell’interrogatorio e inquadra l’inquadratura presentandoci una meta-picture. Il soggiorno elegante ma anche austero di un capitalista, sì proprio un capitalista, di cui Kazan non ci mostra il volto – così come John Hearfield non mostrava il volto del capitalista che riempiva di banconote la mano di Hitler, nel fotomontaggio Il vero significato del saluto nazista (1932), con cui l’artista Dada voleva mostrare alla classe operaia tedesca indebolita nella sua struttura psico-fisica dai debiti di guerra e dalla Crisi del ‘29, la complicità tra nazisti e sfruttatori. Il capitalista, il cui maggiordomo sta preparando la cena, è preoccupato perché il processo è diventato di dominio pubblico, circola insieme alle immagini dei saponi e dei detersivi. E forse anche per questo non dovrà preoccuparsi molto a lungo. Ma la meta-picture è più politica che poetica. Dopo di che, ricordiamolo, è un film e Kazan non era un rivoluzionario. Un po’ di sottigliezza. Forse anche Kazan pur senza adottare lo straniamento brechtiano, vuole risvegliare la capacità di pensare e di collegare quel capitalista senza volto, che non sarà mai processato, alla gang e al racket che inchiodano i portuali ad una vita di stenti e miseria. Il racket della gang è l’immagine anticipata delle odierne agenzie interinali che si incaricano, attraverso contratti capestro e subappalti, di fare il “lavoro sporco” affinché le aziende che impiegano la forza-lavoro così sporca non siano formalmente coinvolte in questa vulcanizzazione dell’esistenza.
Barthes ironicamente alludeva al calvario di Brando nel finale e aggiungeva che la caricatura del capitalista che attende il “rientro in fabbrica” dei portuali non basta. Di per sé non basta ma questa caricatura andrebbe collegata – e André Bazin avrebbe detto che Kazan invita lo spettatore ad uno sforzo di pensiero – con quella meta-pitcure. Ma soprattutto: siamo sicuri che questo calvario non fosse tutta un’ironia anche per Kazan?
Si è detto della tonalità auto-bio-grafica del film. Kazan scrive se stesso ma quel se stesso non è un’entità isolata che dipende solo dalla sua volontà e perfino la sua écriture, per dirla con Barthes, la “sua” grafia non è solo un atto di creazione ma anche un dispositivo antico e macchinico che non dipende dal suo talento e dalle sue intenzioni: la grammatica del film, la “situazione cinematografica” le convenzioni del genere, le regole della produzione hollywoodiano, la logica dello spettacolo e dell’intrattenimento e così via.
Possibile che ad un uomo di spettacolo ormai consumato come Elia Kazan sia sfuggita quella caricatura? Verosimile che Kazan non abbia colto quella resurrezione in tutto e per tutto ordinata da un uomo di fede, un sacerdote che, come voleva Gregorio VII, fa miracoli e ordina a Lazzaro di alzarsi e camminare e per dare il buon esempio a tutti i fedeli, a tutti i lavoratori che devono ritrovare la fiducia nel lavoro e anche nelle istituzioni. Davvero? Stiamo sempre parlando di quel regista celebrato sia da Welles che da Scorsese?
Questo film è importante, una svolta perché Kazan dopo il successo di questo film sarà sempre di meno un lavoratore – al servizio di Hollywood. Si tratta del passaggio al “je” evocato con arguzia da Tailleur? Non proprio. Non è soggettivismo. Quello messo in scena da Kazan è un mattatoio quotidiano. Mattatoio non solo perché il fratello di Terry è appeso come un manzo, per la strage dei piccioni innocenti o i volti tumefatti. Kazan in Panic in the Streets (1950), A Streetcar Named Desire (1951) e in On Watefront, raffigura quel mondo del lavoro che nei suoi spazi umidi e scivolosi pesa e schiaccia, un’architettonica dell’orrore quotidiano che raramente si era vista e sentita almeno nel cinema americano. È l’orrore quotidiano descritto da Adorno in Minima moralia a metà anni Quaranta. L’arte, come ammoniva Adorno, ovviamente non può credersi innocente affermando la propria soggettività e quindi autonomia? Infatti non è quello che fa Kazan. Non si limita ad afferma che l’oggettività reale e storica è colpevole, magari anche del suo “tradimento”.
Non sarà proprio Barthes ne Il piacere del testo nel 1973 e nel corso al Collège de France del 1977-78 diventato poi il libro Il Neutro a suggerire di sostituire il conflitto con la differenza? Differenza che non edulcora il conflitto, è laterale, accanto e forse oltre. Poiché il conflitto è sempre regolato e logoro. Non solo nelle forme del narrato ma anche nel narrato: Chiesa e Stato codificano il conflitto. E Kazan dopo questo film sregola sempre di più le forme del narrato. Ma già in A Streetcar Named Deside la ribalta della scena non è occupata da un testo, il comportamento, lo schema senso-motorio. anche se non è straniamento e disidentificazione brechtiana, scuote dai ruoli di attivo e passivo, autore e spettatore. C’è in questo film di successo premiato con gli Academy Award e che al livello denotativo è mistificatorio, un intrattabile, per dirla con il Barthes del 1973. Forse anche nella raffigurazione di quel lavoro che uccide e che riduce la lunghezza di un arto rispetto all’altro, che vulcanizza e arricchisce chi se la gode nel soggiorno confortevole o se ne sta a braccia conserte. Siamo sicuri che quel golgota del finale non sia un insostenibile piuttosto che un meccanismo di identificazione con il quale anche lo spettatore rientra nell’ordine? Non è forse insostenibile proprio questo? E cioè che dopo tutto quello che è accaduto, l’operaio rientri in fabbrica? E Kazan non mostra il conflitto, vero, come è vero che Terry rientra atteso dal capitalista ma i due corpi sono differenti. La realtà, direbbe Barthes, ha ricevuto il giusto rispetto che le si deve. E Kazan ha pure vinto l’Oscar. Ma c’è una pulsione anche in questo film di successo che è irriducibile. Anche perché, e Barthes lo sapeva benissimo, il linguaggio del potere capitalista funziona meglio, è più efficace quando è invischiamento e doxa e non funzione altrettanto bene se è frontale. C’è qualcosa di irriducibile in questo testo moderno di Kazan, qualcosa di atopico, che non ha luogo, mentre ha luogo il lavoro, ha luogo l’omicidio, ha luogo la premiazione.
Quello che appare nel film di Kazan, almeno al livello del senso eccedente, è ciò che Barthes nel 1973 chiamava raffigurazione: “modo di apparizione del corpo erotico”. E si badi bene il corpo erotico non è solo e non è tanto quello del divo Brando – On the Waterfront non è A Streetcar Named Desire. L’erotico, come scrive Barthes, si dà in qualunque grado e sotto qualunque forma. Erotico e sconcio, osceno e irrispettoso è raffigurare quel mondo del lavoro che riduce la lunghezza del braccio, che pesa, schiaccia, vulcanizza. Una fatica, che come sapeva il Barthes del corso al Collège de France, “la società non riconosce”, una fatica insopportabile anche alla vista. Sebbene noi spettatori, come il capitalista davanti alla televisione, siamo sempre un po’ al riparo. Terribile riparo. Erotismo è anche quando l’autore senza eccedere compare nel testo. Tante volte l’abbiamo detto: in On the Waterfront certo compare Kazan. Barthes nel 1973 scriveva che il testo si rivela nella sua irriducibilità, nel suo godimento non tanto nella sua configurazione “imitativa” (la storia narrata, le convenzioni, gli aneddoti e gli schemi) ma nella sua “struttura diagrammatica”. Un godimento che non è raccolto dalla logica del racconto ma che è disperso e disseminato in “luoghi erotici” e “feticci”. Il feticcio del guanto di cui è già parlato? La piccionaia? La gabbia dei piccioni? Voliere e tetti dal freddo umido sono spazi quasi atopici, squallidi, scomodi, come i luoghi di lavoro giù da basso, i docks viscosi. Ecco, ciò che intralcia la rappresentazione del film hollywoodiano di successo e premiato che, in quanto tale, è mistificatorio – e On the Waterfront è anche tutto questo – è questo desiderio. Uno spazio chiamato desiderio, un tetto, una voliera, un orizzonte di vita appena intravisto in quelle fessure gonfie e semichiuse che sono gli occhi di Brando. La sua gestualità esitante e nervosa, quasi timida se non delicata, l’uso delicato e sfumato delle sue dita che si toccano il viso, come per cercarsi nel buio. Tutti questi sensi, sensi ottusi intralciano la rappresentazione e rendono quel calvario di Lazzaro, il suo rientro in fabbrica, così differente, anche se manca il conflitto con il capitalista comunque in posa caricaturale. Quella di Terry al contrario è postura. La sua retorica desunta dalla struttura informativa e simbolica del film, è intralciata da questa postura. Come diceva Barthes la rappresentazione è quando non esce niente dal libro o dallo schermo. La significanza nel finale di On the Waterfront si produce sensualmente e ironicamente. Quel che esce fuori dal film, nonostante la sua rappresentazione, è un “incidente pulsionale”, quel che esce fuori è la materialità di quelle acque, dalle tavole di legno corrose dal sale, dal respiro, dall’affanno, dalle labbra, dalla presenza di quel muso: il muso non di Brando ma di Terry Malloy. Il suo corpo è il senso gettato nel mio peso d’essere. Come scrive Barthes nel finale del suo Il piacere del testo: “il corpo anonimo dell’attore dentro al mio orecchio: qualcosa granula, crepita, accarezza, gratta, taglia: è godere”. Crediamo, vogliamo credere che Barthes nel 1973 non avrebbe più scritto solo e soltanto quelle cose sul film di Kazan del 1954.
Quello che esce è questa “disperata vitalità” dell’operaio. Barthes nel corso del 1977-78 cita Pier Paolo Pasolini. Quel che esce fuori da questa rappresentazione è la delicatezza dei gesti quasi abbozzati di Malloy-Brando. Un po’ tonto diceva Barthes. Può essere. Perché vulcanizzato? Per i pugni incassati? Oppure perché erotico? È il Barthes del 1977-78 a ricordare che eros è ekstasis: fa uscire fuori di sé. Forse non è ancora uscito dalla fabbrica Terry ma c’è un intenerimento nell’acting di Brando, una titubanza e un’esitazione del desiderio che viene fuori dalla rappresentazione che cattura e che al Barthes del 1977, sospettiamo, vogliamo sospettare, sarebbe piaciuta.
Di nuovo, non si tratta di evasione o soggettivismo. Kazan soprattutto dopo questo film ha mostrato come mai prima quelle potenze dell’oggettivo che alienano le forme di esistenza: dalla televisione alla pubblicità, dall’apparato di cattura del riformismo (rooselveltiano-progressista) fino a quella che macchina tipica dell’industria culturale che, almeno fino agli anni Settanta, per antonomasia produce sogni e illusioni, incantamento e incatenamento, cioè il cinema: A Face in the Crowd e The Arrangement (1969), Wild River (1960) e The Last Tycoon (1976). Solo che, come diceva anche Adorno, Kazan, al tempo stesso, mostra che l’essenza dell’umano anche se ridotta si ribella, ostinatamente. Kazan ribelle dell’America.
III.
Uscire dalla fatica, exit diceva Barthes. Terry Malloy ancora non vi è uscito. Forse. Ma forse noi spettatori siamo un po’ scollati.
L’analogia tra cinema e capitalismo è inscritta sin dagli albori e non solo perché il cinema è una tecnica industriale che nasce nel mondo industriale, ecc., temi su cui è stato scritto già molto, ma anche perché il primo film mostrato in pubblicato fu girato da industriali e aveva come protagonisti gli operai: La Sortie des usines Lumière. Era il 22 marzo 1895. A questo evento dedica una riflessione Georges Didi-Huberman. Il film mostra per la prima volta la classe operaia che lascia la fabbrica. Gli operai non stavano lasciando la fabbrica per interrompere il lavoro, come avrebbe voluto Fortini o per godersi una giornata di sole, come diceva Prévert in una delle sue poesie. È solo una pausa. Eppure, nota Didi-Huberman, il cinema, tecnica che pensa, trasforma quei lavoratori che stanno lasciando la fabbrica per una breve pausa in attori, protagonisti, aprendo la strada ai modi di rappresentazione e esposizione delle folle di Griffith e King Vidor, Gance e Ejzenstejn, ma anche Leni Riefenstahl.
Protagonisti o figuranti si domanda Didi-Huberman. Anche Harun Farocki, filmmaker, videomaker, artista multidemiale e militante, si interroga su quel film, sia in un saggio che ancor prima in un videomontaggio: Workers Leaving the Factory, pubblicato nel 2005 e Arbeiter verlassen die Fabrik, realizzato nel 1995. Protagonisti o figuranti? Gli operai che lasciano la fabbrica, secondo Farocki, aprono diverse possibilità. Per il suo film di montaggio l’artista impiega materiali di repertorio, documentari, film di finzione, film di propaganda, assemblando immagini di operai che (finalmente) lasciano la fabbrica. Certo a volte la lasciano per raggiungere un’adunata nazista e non sempre per dare battaglia o interrompere il lavoro.
La saracinesca del dock si chiude, come un sipario. Terry e gli altri operai ci sono entrati. Forse ne è rimasto fuori Kazan, almeno lui. Noi restiamo là a fissare, a guardare questa chiusura. Come il produttore di The Last Tycoon nel finale del film, che guarda per noi nel fondo della caverna.
Toni D’Angela