“Eliaz Kazan è un traditore. È l’uomo che ha venduto tutti i suoi compagni a McCarthy…
Ma devo dire che è davvero un gran regista”
Orson Welles
“It’s almost impossible to say how deeply I was affected by Kazan’s films”
Martin Scorsese
“Ho sentimenti forti, perfino violenti, questo è un pregio.
Non ho vergogna di mettere a nudo le mie esperienze personali”
Elia Kazan
L’agonia del cinema d’azione e il tradimento
Le colonne e il fango, il velo sottile e la t-shirt macchiata di sudore, la dimora fatiscente e le stanze del desiderio, la Storia tempestosa che fa a pezzi e i pezzi di storie attraversate da correnti intensive. Il sociale e il lirico. Edoardo Bruno, in un suo breve testo, ricordava che in Kazan c’è come una coesistenza conflittuale tra i temi sociali e lo spazio interiore. Poetica sociale diceva il critico Philippe d’Hughes: nel cinema di Kazan confluiscono il filone sociale e quello poetico. Una dialettica ma senza sintesi o forse un’evoluzione travagliata, come suggeriva Roger Tailleur, il quale proponeva una scansione del cinema di Elia Kazan articolandolo nei momenti dell’IL, del TU e dello JE (“personnalisation progressive du il appliqué au tu exalté et au je pénetré”)? Divenire soggetto e regista affrontando le avversità, le regole, la società, il padre, l’ingiustizia, la miseria e la violenza ma poi, al tempo stesso, discendere nella violenza, come Perseo, nel tentativo – che non sempre riesce – di risalire. Un male che non è solo quello relativo che, di volta in volta, insegna Agostino, siamo chiamati a togliere, ma è pure assoluto: mal di vivere?
Sarebbe interessante seguire la pista di Tailleur e integrarla con quella del pragmatista Charles Sanders Peirce distingueva tra “Firstness”, “Secondness” e “Thirdness”, l’essere che esiste indipendentemente, l’essere che esiste in relazione ad altro da sé, l’essere in relazione che media tra “primità” e “secondità”. Solo che per Tailleur il punto più alto è il “je”, l’acquisizione da parte di Kazan della capacità di emettere messaggi più personali e liberi conquistata nel passaggio dai primi film su confezione a quelli incentrati sul più vivo e vibrante “tu” dei primissimi anni Cinquanta. Dall’“egli” impersonale delle convenzioni e dei codici hollywoodiani dei primi film, al dialogo vibrante del “tu” dei primissimi film degli anni Cinquanta, quando Kazan prende familiarità con la macchina-cinema, fino alla libera e perfino stravagante espressione dell’“io”, da metà anni Cinquanta in avanti.
Ma il cinema di Kazan emerge proprio negli anni in cui Maurice Merleau-Ponty osserva che l’io non è un sistema chiuso e inaccessibile all’altro, bensì comportamento, la mia coscienza è tesa e rivolta al mondo, è un modo di comportarsi, una condotta, pertanto è osservabile. Io vedo il comportamento dell’altro, rispondo a esso, lo faccio mio, mi accoppio all’altro e l’altro anche mi spossessa, spossessa me stesso da me, dalla mia inaccessibilità. Mi sottrae alla mia inalienabilità, solitudine atomistica, autosufficienza, supposta insularità, istituendo una commistione di me con l’altro. Il corpo mi consegna all’altro. Gli oggetti, le cose del mondo, sono tali rispetto al comportamento del corpo: gli oggetti devono apparirmi, li devo cogliere in una posizione di scarto rispetto alla posizione simmetrica, cioè a quella di riposo, inattività, non-conoscenza. Sempre in quegli anni Merleau-Ponty, dedicandosi al cinema (“Il cinema e la nuova psicologia”, conferenza del 1945 presso l’IDHEC di Marcel L’Herbier), mostra quanto il cinema sia particolarmente adatto a far apparire l’indistinzione di anima e corpo, spirito e mondo e l’esprimersi dell’uno nell’altro. Lo ricorda anche Deleuze nel suo L’Image-Mouvement, quando parla proprio di Kazan. Cinema di comportamento.
Il comportamento è il segno comune alla psicologia e al romanzo moderno. Nel cinema classico la forma del rapporto tra comportamento e ambiente è strutturata. Deleuze parla di una “impregnazione spugnosa” dell’azione, un’intensità che fa vacillare lo schema senso-motorio su cui si regge la “grande forma” del cinema d’azione. Le situazioni in Kazan si impregnano di tensioni fino al punto di esplodere. È l’agonia del cinema d’azione risolto in una teologia del comportamento e della colpa, osserva Deleuze. Colpa per aver tradito? Tailleur ne parla, come al solito, con finezza.
Che il tradimento ossessioni anche altri registi come Nicholas Ray e Samuel Fuller, che con Kazan mettono in crisi la grande rappresentazione non sorprende. Perché la crisi della rappresentazione è anzitutto crisi della rappresentazione di valori che non sono più condivisi. Il sogno americano si è indurito nel “decennio apatico” che segue alla Seconda guerra mondiale. Eppure, nota Deleuze, nei film di Kazan non scompare il comportamento, solo che lo schema senso-motorio è più complesso. Ciò che fa Kazan è rivoltare i rapporti tra interiore e esteriore, che poi è tipicamente cinematografico. L’interiore, cavare fuori da se stessi pulsioni per interpretare il personaggio e così via, è proprio il comportamento, l’interiore cioè non è più invisibile ma osservabile, visibile, è il comportamento che è come imbottito di interiore. Lo scriveva anche Tailleur, a proposito del Metodo di Stanislavskij adottato dal Group Theatre, fondato nel 1931 da Lee Strasberg e altri; Kazan – che aveva studiato teatro a Yale – vi entrerà a far parte nel 1932, tre anni dopo la Grande crisi del ‘29. La psicotenica che Stanislavkij propone fa sì la recitazione dell’attore vada dall’interno verso l’esterno attraverso la predisposizione dell’emozione, dello stato d’animo interno che poi “esplode” verso l’esterno.
Nel cinema di Kazan, continua Deleuze, ci sono situazioni e ambienti, diciamo che è perfino realista, e soprattutto ci sono gli oggetti, con cui i personaggi hanno rapporti e che svelano o risvegliano qualcosa, cioè l’emozione, la magia che eccede o rigonfia il realismo.
Il legame oggetto-emozione confermato anche da Elia Kazan. Ad una precisa domanda di Michel Ciment sull’utilizzo degli oggetti per scatenare emozioni, il regista risponde: “È un procedimento che ho sempre seguito. Nel Metodo gli oggetti sono elementi primordiali, essenziali. Tutti devono provare ad entrare nel mondo interiore dell’oggetto, a capire il suo significato, in altri termini il suo simbolismo e tutto quanto ciò implica”. Si tratta di un procedimento che Kazan aveva già sperimentato negli anni del Group Theatre.
Come avevano rinnovato lo stage negli anni Trenta, così tra gli anni Quaranta e Cinquanta, Welles, Losey, Ray e Kazan trasformeranno radicalmente il classicismo dello screen. Un altro “tradimento”? Il massiccio stereotomico della “grande forma” del classicismo hollywoodiano, legame forte, die Mauer, è depennato, all’inizio, da un allentamento di questo legame che, anzitutto, fa da ancoraggio tra personaggio, azione e ambiente, da una partizione più schermica, die Wand, un’intelaiatura più leggera, per dirla con Kenneth Frampton (Tettonica e architettura. Poetica della forma architettonica nel XIX e XX secolo). Nei film di Kazan e degli altri registi citati, c’è un dispiegarsi e una interiorizzazione della complessità, uno spostarsi progressivo dalla trasparenza narrativa all’opacità del corpo e dei suoi comportamenti. La massa del film classico americano è sottoposta a una compressione e sollecitata da una tensione tutte nuove, che corrispondono ad una nuova fase storica (Guerra fredda, Guerra di Corea, maccartismo). Lo smascheramento della struttura della rappresentazione corrisponde a quello della realtà. La tettonica dei film di Kazan, a partire dalla metà degli anni Cinquanta e soprattutto con i film degli anni Sessanta, tende a divenire atettonica. La vita e il cinema, auto-bio-graficamente, di Kazan sono questo viaggio anche a ritroso, verso le origini, l’infanzia, l’Anatolia, Hollywood, il tradimento, la tradizione tradotta, quindi tradita e, pertanto, rinnovata. Nel dialogo con le sue origini e con la tradizione, Kazan si rinnova e ricomincia di continuo, senza ritegno né misura. Uomo e cineasta dalle emozioni forti.
Nel cinema di Kazan c’è un superamento dell’immagine-azione e anche dell’eroe-soggetto. Nei suoi film c’è quello che Kant chiama soggettivo. Non una essenza o una sostanza ma un’insistenza. Soggettivo non è personale o individuale ma qui significa preliminare, cioè estetico. Soggettivo è la maniera che accompagna ogni atto, Deleuze direbbe che è l’Impronta, l’interno di oggetti, situazioni e comportamenti. Se il classicismo, nella sua varietà e complessità, assicura l’accordo, il cinema di Kazan è segnato dal disaccordo. Il bello classico e trasparente è accordo che sana le dissonanze e le lacerazioni. Nei film di Kazan il soggetto è sempre allo “stato nascente”. I sentimenti dei suoi film sono forti, non attestano più il gioco armonico tra le parti, ma sono segni di tensioni, pene e conflitti, come quelli che contrassegnano l’epoca della Guerra fredda e del “decennio apatico”.
Anche Welles, prima di Kazan sregola il bello, ma lui è un genio sregolato, cioè un folle delle forme: forme sregolate, manierate, deformate e eccessive. Invece Kazan lavora sull’intensità dell’immagine.
Il bello del classicismo hollywoodiano è rinvigorimento e attrazione, mentre il cinema emozionale di Kazan è una forza vitale e al tempo stesso inibizione che trattiene e reprime in un primo momento – se si vuole rispettando le regole, soprattutto nei primi film – ma poi cede e lascia andare, esplodere e scaricare in un secondo momento. Da questo attrito dipende il tratto tipico del suo cinema che non è gioco e accordo ma tensione. Questa alternanza tra forza vitale e inibizione, dispiegata attraverso temi (conflitto generazionale) e motivi (deviazione rispetto alla grammatica del film classico), è l’intensità. Ecco perché i suoi film sono spesso smisurati e violenti.
Geografia della violenza e geologia delle pulsioni
Che nei film dei primi anni Cinquanta ci sia una nuova intensità, è fuori di dubbio. Ma i primi film di Kazan non sono niente affatto poco interessanti. Da subito, in Sea of Grass (1947), il lato oscuro della storia d’America e il lato oscuro dell’essere umano. Gli allevatori contro i contadini: un topos del western – cinema americano per eccellenza – e teatro dell’accumulazione originaria e violenta del capitale. Storia dell’America.
Polvere e cowboys ciondolanti appena dopo le buone maniere. L’incipit è schianto tra champagne e pessimo whiskey, Saint Louis e la Frontiera. Le mesas sublimi sono lo sfondo da cui si staglia la silhouette della carrozza. Il campo totale del mare d’erba è anch’esso sublime, perfino la sua immagine-audio, il suo sonoro, l’ascolto del vento possente, eco di un passato primordiale, del bufalo ucciso, delle guerre indiane, tutta una tempesta in cui risuona il vento. Un’inquadratura geologica che, come in certi piani di Huillèt e Straub, è anche storica, una storia che è violenza e che lascia tracce tra quei fili d’erba. Ma in quel campo totale pulsa l’Aperto, l’oceanico. Tempesta è la violenza della storia che nel film è come affrontata da quella violenza affettiva, già intensiva che è resistenza e linea di fuga. I piedi nudi nell’aria della sera sono già questo comportamento che disattende, fa urto con la struttura, il filo spinato.
Il film – che a Kazan non piaceva – è costellato di immagini violente, a partire dai collassi, dai crolli senso-motori di Katherine Hepburn che sono il segno di una crisi anzitutto dell’immagine-azione e della sua composizione. Perché il mare d’erba non è bello ma sublime, come il capitale che tutto interiorizza. Il film – nonostante gli apparati hollywoodiani – è una messa in scena della violenza, e quella storica e quella psicologica. Violenza trattenuta nella postura di Katherine Hepburn, “donna moderna” che ha le “sue” idee e contesta il marito e lo lascia scegliendosi come amante un uomo più “progressista”.
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Nell’evoluzione narrativo quello scenario di promesse si fa arido, il paesaggio diventa entropico, come in Baby Doll (1957), con la casa in rovina, in cui sono i buchi (come urla Karl Malden nell’incipit), la spazzatura, i detriti – della Storia. La geologia e gli spettri. La culla convertita in alcova, la giovane vergine che canta la ninnananna. Il delirio del sesso e il delirio del denaro. Tutta la messa in scena (l’ambiente come personaggio) di Baby Doll è un delirio pulsionale che riprende e rilancia quelle alluse in Sea of Grass. Pulsioni rotte che risalgono alla superficie da pozzi singhiozzanti, terre aride, dall’oscurità della schiavitù segnata sui volti dei neri dallo sguardo catatonico e spettrale, eccitati per un istante alla notizia del ritorno del cotone: immagine dell’orientalismo.
Tutto uno sfascio della storia in Baby Doll. Ma, sebbene ad un livello espressivamente meno intenso e “personale”, già in Sea of Grass. In Baby Doll di nuovo il lato oscuro dell’America, il volto nero dei discendenti degli schiavi, il fango sulle stelle e strisce, il margine, la periferia, tutto ciò che non si rappresenta. E la rappresentazione si fa spettrale, una teatralità scassata e clownesca, con immagini-audio, rumori, elementi naturali, urla che rendono la narrazione intensiva. Una Storia situata, ma non geografia del senso, piuttosto una geologia del dissesto. Un thĕātrum che è delirŭs. Teatro delirante.
Baby Doll è un teatro fatto di maschere e simulacri, doppi incerti e soggetti ancora allo stato di larva. Kazan riga la narrazione con un’incrinatura. La sua è una meta-fisica, o come diceva Foucault a proposito di Deleuze, una “fantasma-fisica”. Il che significa crisi della rappresentazione. Il teatro non è riprodotto nel film ma è utilizzato perversamente per schiantare il supporto-cinema e far pensare. Non c’è più archi-tettonica, centratura, cioè eloquenza, ma solo una deriva dei continenti. Scandalo Kazan.
Il tempo del racconto della crisi
Sea of Grass, Baby Doll o del decomporsi del tempo. Come in molti film di Kazan, il racconto è tempo e questo è decomposizione, una marcia funebre animata. Le mesas che ritornano nel finale di Sea of Grass sono funeree, la carrozza è un carro funebre. Jacques Rivette, in un articolo del giugno 1962 apparso sui “Cahiers du Cinéma”, scriveva, a proposito di Wild River (1960) e Splendor in the Grass (1961), che Elia Kazan è il cineasta anche del tempo, il tempo come crisi, trasformazione, intensità e non freccia lineare del tempo, rappresentazione continua; il tempo come degradazione e metamorfosi: tratti che prolessi e analessi di The Arrangement (1969) renderanno ancora più visibili e acuti. Ma già la desertificazione, il corpo crivellato di proiettili e altre immagini di questo “giovanile” Sea of Grass sono tutti sintomi di una crisi e di un’intensità, come nel film, del medesimo anno, apparentemente “giusto” e “corretto” Gentleman’s Agreement (1947).
Nella “city symphony” abbozzata nell’incipit di Gentleman’s Agreement c’è tanto da vedere e ascoltare. Kazan non è minimalista. La plongée vertiginosa schiaccia. Le dissolvenze incrociate danno un ritmo quasi percussivo. Marciapiedi, ascensori e centralini affollati. Suoni e rumori, anzi immagini sonore. L’immagine-suono emerge anche quando Gregory Peck sosta per riflettere, ma sul ponte, sopra l’Hudson e i suoi traffici, la strada che romba, sullo sfondo ciminiere, una crisi nella postura, sull’orlo, una fatica, come poco prima, quando il bambino è stato sottoposto a domande su chi o cosa è. Meditazione e azione, spazio contemplativo e spazio d’azione in una dialettica di urti.
Il rumore della città e il silenzio dell’antisemitismo che parla nei gesti, negli imbarazzi, nelle gaffes, nei sorrisetti non solo di portieri o medici ma anche di intellettuali liberals e come sempre da salotto, come Voltaire. Perfino gli ebrei cambiano nome. O perfino di ebrei cambiano il loro cognome. L’America oscura, quella che lotta contro i nazisti e, insieme, discrimina gli ebrei.
Questo il tema declinato attraverso il motivo del personaggio del giornalista idealista Peck che, come insegna il Metodo dell’Actor’s Studio, si immedesima nel suo ruolo di “ebreo”. È il taglio, il comportamento che taglia la struttura narrativa del film hollywoodiano e progressista, premiato con gli Oscar.
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Il Metodo provoca ancora una volta una crisi nei rapporti. Che è quello che interessa a Kazan, a dispetto della Storia e della “storia”. Fosse anche una storia di liberazione e sconfitta, esaltazione e disillusione, come quella di Viva Zapata! (1952), in cui contano più gesti e situazioni, come il raptus di Brando-Zapata, Quinn che bacia il cavallo, la scena dell’esplosione in cui la donna ferita a morte si getta a terra per accendere la miccia e far saltare per aria i soldati, la musica della rivolta intonata dai sassi, lo sguardo ombroso di Brando che dubita. La Storia fa a pezzi ma nel film la terra trema, c’è tremore della e per la terra, la terra in rivolta e la rivolta per la terra. Un sommovimento che scuote. La geografia contro la storia. Inclusa la geografia del corpo, la generosità tutto corporale e perfino ingenua (sacrificio cristologico per liberare i contadini dalla colpa del capo?) di Zapata opposta alla “teatralità”, i costumi di scena di politici e militari. Quel corpo è intensivo.
Il cinema di Kazan è intensivo, all’inizio nello spasmo, nel raptus – come quando James Dean fracassa il ghiaccio custodito dal padre moralista in East of Eden – nell’eccesso, via via diventa più sottile, un’intensità schizofrenica e intimista in The Arrangement, raggelata in The Visitors (1972) e come disegnata in The Last Tycoon (1976).
East of Eden
Gesti, posture e comportamenti soprattutto nei primi film degli anni Cinquanta: le mani attorcigliate disperatamente alla fune di Jack Palance in Panic in the Streets; le dita unte di pollo, il sudore e la schiena nuda di Brando in A Streetcar Named Desire (1951); il corpo di Rod Steiger appeso come un manzo e la voce di Brando che confessa l’intollerabile a Eve Marie Saint sovrastata dal frastuono, il suo volto tumefatto affondato nell’acqua sporca del molo in On the Waterfront (1954); la vettorialità nervosa del corpo di James Dean che attraversa piani e strade e fa sobbalzare, l’inquadratura baconiana sul tetto del treno merci (vettore su vettore, emotion–motion) e le mani di Dean disperatamente aggrappate a una tubatura in East of Eden; il piede sullo stomaco e il morso in Baby Doll; i sudori di Brando e quelli di Andy Griffith in A Face in the Crowd (1957).
A Streetcar named Desire
On the Waterfront
East of Eden
Kazan la fa finita con questa “buona forma” della rappresentazione che sublima.
Cinema di materie, perfino di cose senza importanza. La materia si oppone alla luce, vero, ma la materia è autonoma, le tenebre sono il male, certamente, ma questo male è attivo, perfino creativo. Ecco perché il titolo di un famoso libro di Bataille è La letteratura e il male. Il cinema e il male. La materia, come l’abietto, come i capelli, il fango e la sporcizia del Parmenide, sono fuori di me e cadono fuori della giurisdizione dell’idea, ciò che è basso si sottrae al cielo delle idee. Non solo le stelle, ma anche il fango e il sudore.
Narrazione intensiva
Questi gesti e situazioni, un tempo privi di importanza, nel cinema di comportamenti di Kazan cominciano a dispiegarsi in Panic in the Streets (1950). Per Tailleur questo film segna il passaggio dal “noi” al “tu” e ad una nuova e più brutale intensità. Kazan insiste molto sul comportamento dei suoi attori, l’obesità di Mostel e l’ossatura spigolosa di Palance. Tutta questa corporalità si spigionerà ancor di più nel primo film con Marlon Brando. Il bar con con il muro rovinato di Panic in the Streets affollato di derelitti:. migranti, neri e emarginati. Lo sfondo sempre popolato – come le inquadrature affollate di On the Waterfront e più tardi di America America (1963) – anche di rifiuti, le inquadrature scattanti. È un film dalla narrazione febbrile. Film di corpi. Sudori, violenze, il corpo lanciato giù dalle scale, l’inseguimento per strada, Zero Mostel sfinito, lo spazio sotto il molo, la corda umida di sale a cui si appende disperatamente Palance: sentiamo anche noi le mani bruciare. Come sentiremo le mani di Lee Remick stringere il tessuto della tenda come fosse il corpo di Clift in Wild River. Narrazione di un’azione che è sempre più crisi dell’azione e sempre più emozione.
Narrazione intensiva che si fa desiderio, come già in A Streetcar named Desire. Ancora New Orleans, il jazz, un décor teatrale ma che subito scompare nella dissolvenza in nero, depennato dal movimento del treno che sbuffa e dal rumore del traffico. È cinema! Dal vapore – se ne sarebbe ricordato Scorsese nell’incipit di Taxi Driver (1976) – Vivian Leigh.
Campi elisi e desiderio. Amore e morte. Chiasso, neon, marinai, movimenti di macchina che, senza stacchi, raccordano gli spazi, come le dissolvenze incrociate. La convenienza e la bestialità, i nervi e i muscoli, il vestitino delicato e il sudore: Leigh e Brando. Kazan si è finalmente raggiunto.
Il rumore martellante che sovrasta e interrompe la fuga di Blanche, come succederà a Eve Marie Saint durante la confessione di Brando, che fa rimanda all’amichevole scarica di pugni tra padre e figlio, il padre che subissa il figlio, tempestandolo di parole, raccomandazioni, istruzioni, tutto un sonoro intollerabile, con lo scatto conclusivo di Warren Beatty in Splendor in the Grass. Ma anche la visione aptica del corpo di Stanley fa tremare Blanche. Cinema intensivo, di pulsioni.
L’urlo straziante di Brando gocciolante ai piedi della scala spiralica invoca Stella che, come un serpente, scende le scale per afferrare il corpo di Stanley Kowalski. Bestialità del cinema. Attrazione che lascia sgomenta Blanche e sgomenti tutti noi.
Le colonne e il fango. Blanche, Zapata, Terry Malloy (On the Waterfront), Lee Remick in Wild River cercano tutti una fessura nella roccia, un caso, una fortuna che schiodi, che intacchi la roccia, il massiccio. Non ne possono più delle colonne. E nemmeno Kazan.
L’urlo delirante, il neon intermittente, il buio, la folla che assedia la casa provocando il crollo definitivo di Blanche, il corpo a corpo tra Brando e Leigh, l’ellissi improvvisa, lo specchio rotto, l’idrante che getta acqua sono tutti segni violenti, i segni del cinema di Kazan che la fa finita con la rappresentazione a dispetto dell’impianto e perfino della pièce teatrale. È cinema, come mostra e racconta Robert De Niro in The Last Tycoon allo scrittore in crisi Donald Pleasance.
Wild River
Geomorfologia degli affetti
Domare le forze della natura, costruire dighe, tutto ragionevole, perfino progressivo. Eppure in Wild River, di nuovo, un contrasto, quello che Aby Warburg ha chiamato del serpente e dell’elettricità che scriveva: “non ci sentiamo di asserire senz’altro che liberando l’uomo dalla visione mitologica lo si possa davvero aiutare a dare risposte adeguate agli enigmi dell’esistenza” (Il rituale del serpente). Se non nell’attraversamento di quel fiume che è l’amore, come accade in una delle scene più delicate del cinema di Kazan. La geologia del dissesto di Baby Doll, con la sua fisica fantasmatica, la vecchia casa senza archi-tettonica, il teatro perversamente delirante, pulsionava lo sfacelo, la deriva. In Wild River, un gioiello nel pantano che concatena delicatezza e violenza, invece, la casa crolla sotto il peso delle fiamme, del progresso, dell’elettricità e la dissolvenza incrociata si fa sovrimpressione: Remick e Clift, agenti del progresso, ritraggono lo sguardo, non sopportano la distruzione della vecchia casa sull’isola in mezzo al Mississipi.
Wild River è una geografia delle affezioni. È aptico, si sentono il vento, l’aria fresca, lo stormire delle foglie, i ricordi, i fantasmi, la pioggia sull’uscio, la pioggia sul vetro della finestra, Monty Clift che succhia il sangue dal dito tagliato di Lee Remick. E poi il fango, quello di cui il giovane Socrate diceva che non si dà alcuna idea, forma visibile che rende visibile il visibile.
Wild River
Razionalizzare il dissesto idrogeologico si può, ma la posta in gioco qui – come sempre in Kazan – è più intensiva. Le alterazioni catastrofano l’equilibrio della geomorfologia degli affetti, i territori del cuore franano. Kazan mette in scena alluvioni e erosioni dei corpi. Una tettonica che deforma e disloca le faglie narrative tessendo nuove trame.
Ma non sempre basta l’energia per provocare smottamenti. Andy Griffith in A Face in the Crowd è energetico, perfino bestiale. Forza della risata bestiale ma canalizzata nei dispositivi che mercificano tutto l’esistente. “Lonesome Rhodes” (Griffith) tradisce la sua animalità: A Face in the Crowd è un film quasi adorniano, che non solo mette in scena la mostrificazione prodotta dagli effetti dell’intrattenimento culturale ma che inchioda anche coloro che qualche anno prima avevano convocato Kazan davanti all’HUAC. D’altronde anche Lee Remick – con cui Griffith tradisce Pamela Neal in A Face in the Crowd – deve tradire il suo promesso sposo per involare verso una vita nova. Come tradisce anche Brando-Malloy. Senza il tradimento ci sarebbe stato sviluppo nel biblico East of Eden? Uno sviluppo obliquo, come oblique alcune inquadrature del film che rimandano ad altre sempre con Dean protagonista, in Rebel Without a Cause (1955) di Nicholas Ray.
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Wild River è un film chiave che chiude e, al tempo stesso, apre, insieme a Splendor in the Grass. Qui, il bacio, le cascate, il sesso, la violenza delle acque contrassegnano il film, ambientato anch’esso, come Wild River, negli anni della Depressione. Film di urti e contrasti. Purezza e peccato.
La violenza della fellatio simulata o immaginata – che rinvia alla scena di On the Waterfront in cui Brando si infila nelle dita il guanto di Eve Marie Saint – di cui le parole invocate da Beatty sono un sostituto e, a un tempo, la tenerezza del fidanzata che ama la giovane che non vuole concedersi. Gli schiaffi della sorella sul viso di Beatty che diventano carezze. Per non parlare dell’amore e dell’odio per il padre, come in East of Eden e poi America America e The Arrangement. Il bel viso di Beatty ma tumefatto come quello di Brando pestato da Lee J. Cobb e, più tardi, quello di De Niro colpito da Nicholson in The Last Tycoon. Splendor in the Grass è tutto un arco eracliteo, un polemos, una tensione che ha il suo correlativo oggettivo nella presa tra la postura dolente di Wood e la lettura dei versi di Woordsworth che, poi, prelude al suo crollo senso-motorio.
Nathalie Wood al cospetto delle cascate sublimi, al chiar di luna, rinvia alle silhouttes stagliate sulle mesas di Sea of Grass. Le inquadrature delle acque, la panoramica a schiaffo che raccorda la crisi di Nathalie Wood con la violenza della cascata, il montaggio rapido e percussivo, ma soprattutto il campo/controcampo tra l’acqua possente e il volto di Wood, sono come colpi, schiaffi, un ritmo intensivo che piega la narrazione e lo schema senso-motorio della ragazza. Campo e controcampo: legge e desiderio. Compromesso e delirio. Splendore del fiore e sorte funesta.
Odissea nello spazio del cinema
Partire è un po’ tradire, la famiglia, gli amici, la terra. America America con i suoi campi lunghi delle pianure turche e i primi piani espressionisti, affollati, la macchina da presa a mano, il ritmo intensivo se non convulsivo, le immagini vibranti, i sudori e le danze, le fiamme e i vapori, le
inquadrature affollate, i corpo a corpo, i suoni, rumori, fischi del treno è, a quell’altezza, il film più “personale”, auto-bio-grafico di Kazan, spesso sospeso tra inquadrature quasi astratte e accensioni intensive che rendono comunque indeterminato il “quadro”. Non solo perché racconta le peripezie di un migrante ma anche perché mostra la più radicale e perfino irresponsabilità del regista Kazan che ho sciolto tutte le briglie. Scatti, ritmo ravvicinato del montaggio inscritto in scenari silenziosi, inquadrature stratigrafiche inclinate, campi totali scoscesi, vertigini e scene di intensità inedita.
L’assalto del greco Stravos alle spalle del suo sfruttatore, il turco Abdul che lo raggira, umilia e provoca. Nel romanzo è reso così: “Abdul si alza, stende il tappeto per la preghiera, e dà inizio al consueto rituale. Stravos sa di non aver scelta: ora o mai più. La sua mano è sul pugnale. Quando Abdul cade in ginocchio e prosterna per pregare, Stravos, con la velocità dei suoi verdi anni, gli salta sulla schiena, affondando ripetutamente il pugnale. Abdul lancia un urlo terribile”. Ma la scena cinematografica, attraverso il montaggio che accelera il tempo delle inquadrature sempre più brevi e e affilate e la macchina da presa che dal basso inquadra il balzo di Stravos, è molto più intensa rispetto a quella della pagina letteraria. E poi il raptus-ballo sul ponte di terza classe punteggiato dal suicidio-crollo dell’amico, nel corpo a corpo tra miseria e splendore, ricchezza e disperazione. Sempre sul filo, come nella scena d’addio tra i promessi sposi, quando Stravos finalmente si intenerisce ma poco prima di lasciare per sempre Thomna. Merleau-Ponty scriveva che si progredisce solo obliquamente, rispondendo a ciò che accade. È il cinema di Kazan.
Kazan mette in scena il morire del desiderio d’America, non solo nella scena del ballo sul ponte ma in tutto il film. Stravos in Turchia sarebbe stato un marito adorato, padre e benestante. Ma non sarebbe stato giovane (East of Eden, Splendor in the Grass). Nel suo romanzo, da cui Kazan trae il film, nella scena in cui Stravos si congeda da Thomna, scrive: “Stravos: Io credo… io credo che… che in America… credo che tornerò pulito come un tempo”. In America Stravos vuole cogliere lo splendore nell’erba. Ma per diventare se stesso deve tradire la promessa sposa, per essere giovane ha scelto l’odissea e di lustrare le scarpe – ma nel montaggio parallelo la Turchia (per i greci come per gli armeni) è oppressione.
Un’odissea, il viaggio di Elia Kazan attraverso il cinema per inseguire se stesso, la sua libertà. Auto-bio-grafia – come osserva il filosofo Carlo Sini – è sapere (del)la vita, parlare di situazioni che dicono molto di più dei dati con cui si presentano. Raccontare cose verificabili e altre vissute e percepite da una certa angolazione, per esempio – da East of Eden a America America e The Arrangement – quella della relazione tra padre e figlio, la relazione dal punto di vista del primo e dal punto di vista del secondo e il “punto di vista” della relazione. Il cinema di Elia Kazan è auto-bio-grafico anche per quella dialettica descritta da Tailleur tra “il”, “tu” e “je”, poiché la écriture non è mai solo impersonale o personale ma mette capo a una molteplicità di tracce che sono quelle della famiglia ma anche del teatro e del cinema. Alcune scompaiono dal campo dell’osservabile, ma non significa che non siano insistenti, altre riemergono nei discorsi e nei vissuti. Memoria, nostalgia per le origini, tracce tutta una diaspora narrativa che film come America America, The Arrangement e anche The Last Tycoon “tematizzano”, mettono a fuoco, rendono visibili attraverso motivi forti e innovativi, ma che già informano gli altri film di Kazan, sebbene ad un livello più implicito. Roland Barthes nella Leçon inagurale al Collège de France del 1977, scriveva che la letteratura è un grafo complesso, un “lingua fuori del potere”, una “rivoluzione permanente”, una pratica di scrittura. Fuori del potere non per i suoi messaggi (contro il potere), ma per il gioco di parole. La forza, anzi le forze di libertà che sono dentro la letteratura non dipendono dal fatto che chi scrive è una persona civile, impegnata politicamente, perché questo è solo un “monsieur”. La libertà della letteratura dipende dal “travail de déplacement” che è esercizio sulla lingua. Il cinema di Kazan, così auto-bio-grafico, infatti, è questo travail de déplacement. America America è questa dislocazione: un racconto di questa continua dislocazione, odissea del senso.
America America – tratto dal romanzo che lo stesso Kazan scrive nel 1962 – è la scrittura dell’uomo e delle avversità. L’uomo è le avversità, di cui sentiamo la texture, dal ghiaccio affilato agli odori degli ammassi di carni e sogni di Ellis Island. La possente montagna dell’altopiano anatolico (“Molto lontano si vede il Monte Erzus, dalla forma bellissima, perfettamente proporzionato, con la vetta e i fianchi coperti di neve”, è l’incipit del romanzo di Kazan) non è abbastanza grande per contenere i sogni. Infatti l’America è sempre due volte: America America. Oppure la prima volta è sogno (per pochi che hanno molto) e la seconda incubo (per molti che hanno poco)?
Ma anche del dissenso e del dissesto, perché, infine, l’America è raggiunta in The Arrangement: incubo ad aria condizionata, per dirla con Henry Miller. Comfort, intrattenimento, unidimensionalità, banalità di base, tutto un countdown – come in Dillinger è morto (1969) di Marco Ferreri – che conduce al tracollo. Autostrade del dissesto, marcia catastrofica senza alcuna guida. La sterzata dell’incidente è il trauma che interrompe il continuum di un ambiente audio-visivo che interpella nella distrazione: The Arrangment riprende e innalza A Face in the Crowd. La macchina da presa di Kazan è ancora a mano, come in America America. L’arte non è comunicazione, pubblicità, intrattenimento. Un film toccante e toccato, eccentrico e poetico, dal montaggio rapidissimo ma anche delicato.
Messa in scena della schizofrenia, dell’incrociarsi, dell’inserimento reciproco di reale e immaginario, di un “je” che non è mai separato dal “tu” e dall’“il”. Sentire le voci, vedere l’invisibile, il passato che si invagina nel presente attraverso i flashback, scivolare nel tempo passato attraverso gli spazi presenti sono tutti segni di un’ontologia stravagante – come il tono del film – mescolata. Film stravagante: frammenti foto animate, inserti fumettistici, slow motion.
Il cinema di Kazan – soprattutto a partire da Wild River – si conferma meta-fisico, non su un lato o l’altro, nel mezzo, tra la materia e l’idea, il fango e le stelle. Cinema non solo di corpi e comportamenti ma di elementi.
L’alternarsi veloce di ufficio e spiaggia, slogan e onde del mare, l’andirivieni tra passato e presente, meditazione e azione, non sono che stazioni di un irradiarsi che è ovunque. L’altro da sé, l’alter ego, il doppio di Kirk Douglas non è un mistero. I suoi paesaggi, i suoi ricordi sono come aggrovigliati perché l’incidente dell’amore ha risvegliato questa sinergia, questa co-appartenenza, per cui la sua lacuna – nonostante i successi e l’affaccendarsi in faccende – è finalmente colmata dallo sguardo dell’altro. Lo schianto dell’auto corrisponde a quello amoroso, provoca lo scossone che scuote dall’essere inchiodato ai confini, ecco allora che proliferano i flashback e i momenti del passato e lo spazio a sua volta si fessura, divaricato da più durate che coesistono, l’immaginario sfonda il reale e questo si fa immaginario. La crisi non è solo e non è tanto la lotta tra il pubblicitario di successo che vende morte e il suo supposto alter ego. La vibrazione è più ampia rispetto al “je” e al “tu”. Nella messa in scena di Kazan si dà un’esistenza atmosferica. Anche in questo senso il film è auto-bio-grafico. Non solo per il rimando all’inserto inter-testuale di America America, ma perché è un’ulteriore tappa di liberazione dalla delimitazione grossolana per esempio di passato e presente. La forma precisa dell’uomo tutto d’un pezzo è solidale con una trama più porosa. È quello che cerca disperatamente di dire Douglas alla moglie Deborah Kerr: voglio essere, semplicemente essere, essere niente, non qualcuno che si procura le cose, si dirige verso esse, ma aperto su un campo aperto. La schizofrenia di Kirk Douglas è questo campo aperto, l’essere attraversato dalle voci e dagli altri, dalle durate e dai luoghi, un essere poroso, di pregnanza. E non solo un “je” affrancato.
Discesa agli inferi – ritorno alle origini
Ancora una casa in The Visitors. Come in Baby Doll e The Arrangement. La casa delle idee è una caduta. Einfall in Hölderlin è sia idea che caduta, rovina. La casa a pezzi dilegua le idee. La casa in The Visitors non è fatiscente, non prende fuoco come in The Arrangement, ma è gelidamente e spettralmente immobile, tagliente come il ghiaccio. Fiaba orrorifica, l’inquadratura iniziale potrebbe essere quella di un film dell’orrore degli anni Settanta. L’intimità del gelo o il freddo come prossimità. Una sorta di Kammerspiel sempre sul punto di esplodere e che quando esplode, tutto sommato, non presenta alcun climax, il che rende l’orrore ancora più inquietante, la violenza qualcosa di “domestico”, “familiare”, di casa.
Ancora una volta il lato oscuro – o bianco come la neve e la perdizione – dell’America. Questa volta, dopo l’accumulazione violenta del capitale, la Depressione, il divenire-merce e divenire-immagine dell’esistente, la violenza dei soldati nella Guerra del Vietnam. Prima di Cimino, Coppola e De Palma. La casa e la violenza, violenza domestica, che è di casa e anche nella giungla.
Sovrimpressione-coalescenza del volto della giovane donna che guarda dalla finestra il padre e i due reduci sparare all’alano nello scenario innevato. La tensione e il silenzio glaciale. Quasi un’immobilità; questa staticità rende più acuta la violenza.
The Visitors
Il film presenta perfino dei primi piani quasi warholiani. Anche l’auto parcheggiata sulla neve – “natura morta” straniante – ricorda quelle degli incidenti di Warhol, per la freddezza, in un’inquadratura notturna parziale che vela il corpo a corpo tra i due ex reduci rendendolo ancora più indeterminato e strano. Le pareti, in casa, diventano calde, la durezza si fa sensualità assurda. L’odore della violenza accende il focolare domestico.
Tutta una fenomenologia della promiscuità. Lo sguardo perso nel vuoto, il baule ghiacciato sotto la schiena, il controcampo dei rami d’albero tra cui si apre il flashback della jungla vietnamita, campo/controcampo che rimanda a quello che vede protagonista Nathalie Wood nei pressi delle cascate in Splendor in the Grass. Campo/controcampo che Kazan costruisce in una sequenza che concatena passato e presente, spazi eterogenei fra loro, violenze differenti, in un film punteggiato da inquadrature a volte quasi astratte, rarefatte, gelidamente bianche. L’urina calda sulla neve fredda, la schiena ancora sudata dopo la violenza sessuale, lo sguardo perso nell’aria fredda della notte, il controcampo del Vietnam, dapprima indeterminato e astratto – per l’uso della macchina da presa a mano – e infine coagulato nel volto atterrito della giovane vietnamita, sempre fra i rami, che, a sua volta, ha lo sguardo rivolto verso quel campo che è diventato controcampo, lo sguardo vuoto del reduce. Silenzio glaciale, terrore del male. Forse male della banalità che diventa banalità del male. Anche di questo si sarebbe ricordato Scorsese?
The Visitors
Forse – considerando, insieme, la bellezza delle immagini e la loro violenza – una riformulazione radicale, e terribile, della formula “poetica sociale”? Possiamo anche dirla così: Roland Barhtes in Le Degré zero de l’écriture (1953) scriveva che la letteratura è un’istituzione che non dipende mai del tutto dalla storia, la molteplicità delle scrittura istituisce un’utopia che non è localizzabile storicamente.
E dopo la violenza, tutte le violenze, come se nulla fosse, la porta di casa si richiude. Ancora il tradimento, come in On the Waterfront e forse ancora di più in East of Eden, il film che, per Tailleur, segna il passaggio al “je”, il Male non è solo quello storico, ma quello assoluto. Ma soprattutto l’ambiguità: i due ex militari hanno quasi tratti di tenerezza o comunque la cercano, come nella scena in cui il padre della ragazza si addormenta abbracciando uno dei due. Cinema crudele quello di Elia Kazan. Quasi un inferno. Ambiguo era anche East of Eden, formalmente il primo film davvero libero, come questo del 1971 che si libera di tutte le convenzioni, riducendole, condensandole, lavorandole dall’interno, raggelandole per poi farle esplodere ma silenziosamente, senza alcun climax.
La discesa agli inferi è un viaggio nella nostalgia. Flashback su Hollywood. In The Last Tycoon c’è ancora una volta il racconto del tempo, il tempo che si dispiega, consumandosi. Una recherche du temps perdu, l’innocenza di Hollywood il cui tempo infatti è irraggiungibile perché Hollywood non è mai stata innocente.
Il terremoto a inizio film è come la fortuna che intacca la roccia, per citare Rosalind Krauss che parla di William Kentridge a proposito di Mine (1991). La scoperta dell’attrice che troneggia su una testa gigante mentre naviga nelle acque liberate dal terremoto e che scorrono per le strade degli studios e che, infine, resta come sospesa nella notte. Una visione. Ma anche qui tornano i sudori. Quello sotto le ascelle del ben vestito Tony Curtis, divo impotente che chiede al produttore di restituirgli la virilità.
Che cos’è il cinema? La domanda delle domande in questa discesa agli inferi. Il nichelino, un oggetto, una situazione fa scattare il… cinema. Ciò che è fisico ma che fa scattare qualcosa che non è fisico. Attraverso il fisico l’intimità della memoria. Meta-fisica, come la recitazione di De Niro o la partita a ping pong tra De Niro e Nicholson, l’uno il doppio dell’altro, sogno e fantasma. Meta-fisico campo/controcampo, questo, tenebroso, colpo su colpo, tutta la coesistenza conflittuale, la contraddittorietà del sua cinema – e della vita.
Che cos’è il cinema oppure di chi o cosa si innamora il produttore De Niro in quel campo/controcampo innescato dall’urto? Di un’immagine? È forse quello che fa il cinema?
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Tenera è la notte e pure tenebrosa. Una vita tranquilla, sogna la giovane donna, ma le onde si rompono sugli scogli.
E il produttore deus ex machina si sente a casa, ancora la casa come in molti altri film di Kazan, ma questa è senza un tetto, a differenza dei film che si devono sempre portare a compimento, devono essere ben definiti – anche se ogni tanto si può produrre un “film di qualità.
Ancora un film sulla crisi del compromesso. Sulla crisi: come aveva colto Rivette, parlando di Splendor in the Grass, Kazan è il regista dell’intensità e della crisi. Solo l’intensità importa in questo film chiuso da un altro campo/controcampo decisivo, quasi astratto, tra reale e immaginario, non solo tra Stahr e Monroe. Non c’è visione senza schermo, vediamo attraverso gli schermi. Le visioni, anche le più angelicate, quelle dell’amore, sono sempre velate di tenebra. Inghiottito dal buio, dalla caverna di Platone, dal regno delle immagini o dalla crisi reale del compromesso. Il cinema dentro il cinema che conduce fuori dal cinema. Il cinema che s-vela la realtà. Quella grande notte che divora De Niro, notte ancora e sempre non esplorata, non è solo quella del cinema, ma anche quella della nostra anima. In quanto regista di film, Elia Kazan, dunque, fa dell’auto-bio-grafia. La notte del cinema è quella della nostra anima.
The Last Tycoon
Toni D’Angela
Nota bibliografica
Edoardo Bruno (a cura di), Elia Kazan, Gremese Editore, Roma 1989
Toni D’Angela, Elia Kazan. La sorte funesta e lo splendore del fiore, 2024, disponibile su Amazon
Gilles Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, Ubulibri, Milano 1984
Roger Tailleur, Elia Kazan, Cinema d’aujord’hui, Paris 1966 (traduzione italiana in Roger Tailleur. Gli occhi fertili, a cura di Gianni Volpi, Edizioni Falsopiano, Alessandria 2010)
Plus Peirce, Warburg, Merleau-Ponty, Barthes, etc.