VII. CALVINO, GODARD: CLASSICO, MODERNO, POSTMODERNO
Realismo, simbolismo, allegoria. Anche se la temporalità non è mai lineare e lo spazio arbitrario della periodizzazione è condiviso da “autori” tra loro molto divergenti. Classici, cioè che rimandano ad un’esperienza comunemente condivisa, sono Fielding e Balzac, il neoclassico Ingres, il romantico Delacroix e il realista Courbet, Murnau e Ford; moderni Flaubert e Joyce, Manet e Mondrian, Welles e Godard, Aldrich e Straub; postmoderni Borges e Pynchon, Altman e Paul Thomas Anderson. Ci sono sovrapposizioni, andirivieni, coesistenze, sfumature, terreni di condivisione, forme miste, soglie ma, certo, anche rotture. Godard torna ad un certo classicismo dopo la modernità dei primi film e la decostruzione postmodernista dell’audio-visione degli anni Settanta.
Calvino esordisce come scrittore neorealista, la didattica di Il sentiero dei nidi di ragno (1947) raccorda avventura e impegno, proponendosi di cogliere e descrive il nesso tra la rappresentazione e il senso del mondo. Più avanti svilupperà una narrativa sempre più postmodernista che culmina nel gioco combinatorio di Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979), un romanzo che ha per oggetto il romanzo. Nella Trilogia araldica degli anni Cinquanta, comincia a sviluppare una combinatoria che rimescola codici e lingue, dialetti e registri, indebolendo sia la struttura del racconto che quella della soggettività che va via via sdoppiandosi nelle sue pulsioni topiche (Il visconte dimezzato), perdendo peso e aderenza alle convenzioni sociali (Il barone rampante) e evaporando sulla soglia tra essere e non essere, inesistenza e insistenza (Il cavaliere inesistente). Calvino inventa un linguaggio attingendo a una molteplicità di fonti storiche e letterarie, trasformando generi in una operazione testuale di rifusione che ibrida questa modalità narrativa e linguistica araldica, singolare, straniante – come fosse di un’altra epoca senza esserlo davvero – con temi radicalmente contemporanei, che interpellano l’uomo invischiato nell’alienazione e nel disorientamento dinanzi ai processi di trasformazione della società – anche nell’Italia arretrata e devastata del dopoguerra. Un uomo fatto a pezzi dagli avvenimenti sempre più caotici come le mischie de Il visconte dimezzato (1952), che si sente isolato o incompreso dal consorzio umano (Il barone rampante), che c’è ma non esiste e esiste solo quando non c’è (Il cavaliere inesistente). Ne Il barone rampante (1957) vi sono storie dentro le storie, un personaggio che è narratore delle vicende di un altro personaggi. È un libro che cita altri libri (Richardson, Fielding) e che attinge sia alle fonti della tradizione letteraria d’avventura, dal Don Chisciotte al Gulliver fino ad Alice nel paese delle meraviglie, sia a romanzo filosofico illuminista, che declina motivi classici (l’avventura della rivolta, la fuga dal mondo) in temi via via più complessi, storici e che interrogano la contemporaneità dell’autore. Un romanzo che dichiara, enuncia, commenta il romanzo storico senza essere mai un romanzo storico. Una lingua reinventata che impiega, come in un crocevia, gerghi, dialetti, lingue, stilemi, registri. Un romanzo di trapasso che raffigura un’epoca di trapasso (il passaggio alla modernità nel romanzo), il trapasso da un romanzo modernista a uno postmodernista.
Le pieghe del racconto divengono più ambigue e sfumate: i narratori sono personaggi laterali che riferiscono eventi osservati in prima persona e altri che sono riportati da terzi e racconti fatti dai personaggi principali e che di volta in volta variano (Il barone rampante) di cui spesso dubitano o che hanno uno statuto fluido al pari dei fatti riferiti da altri, fino a quando il narratore stesso non si rivela doppio e personaggio a sua volta del racconto dopo aver simulato un distacco e, al tempo stesso, dopo aver enunciato la sua funzione di tessitore del testo che, in forza dei suoi interessi e dei suoi accidenti, plasma la storia: è il caso di Bradamante in Il cavaliere inesistente (1959). Una passione combinatoria non tanto per gli intrecci che danno una buona forma al racconto classico, ma per gli ammucchiamenti, gli ammassi, le misture di umori, fluidi e masse, per i rovesciamento e i rivolgimenti che culminano ne Le Cosmicomiche (1965) – l’invenzione dell’ennesimo mondo diegetico – in cui Terra e Luna si toccano e le prospettive si ribaltano l’una nell’altra: ciò che dalla Terra sembra un tuffo, dalla Luna pare un salto. Un’altra avventura che disorienta in cui Calvino sviluppa una tonalità sinestesica che mette in gioco non solo la mente ma tutto il corpo che si sente scosso, la texture del racconto, la fibra delle parole si sentono, hanno una grana tattile, squamosa, scivolosa, all’inizio, “La distanza dalla Luna”, ma anche nel segmento “La forma dello spazio” in cui il lettore precipita, annaspa, sente di cadere nel vuoto, in fondo nel fondo più fondo. Esercizi in cui ci si perde e ritrova, si smarriscono gli orientamenti, si impastano i confini, un territorio ondeggiante che invita a riadattarsi di volta in volta. La materia gassosa fi fa fluida e si addensa e poi ricomincia il gioco. Giocare con il mondo è giocare con la parola. Incidere un segno nel mondo, far segno al mondo è aprire un mondo di segni: di-segnare il mondo. Le cose schiudono dai segni, sono in quanto segni. Calvino, come Qfwfq, fa le cose manipolando i segni.
Se mancano i segni non si possono dare nemmeno le cose, non si possono neppure pensare. I segni poi segnano pure i segni. Un avvitamento semiotico che rimanda a Peirce, fondatore della scienza dei segni. Il pensiero è uso dei segni. I fatti conosciuti, e raccontati, sono segni interpretati. Icone, indici e simboli, ma il segno più importane è l’uomo stesso: l’uomo è un segno. L’essere è conoscibile in quanto il reale è un segno. Ne Le città invisibili scrive che l’occhio non vede cose ma figure (segni) di cose, per cui non si piò più distinguere dentro e fuori, l’uno è una piega dell’altro e viceversa. Una tessitura leibniziana su cui si dispiega una sorta di slancio vitale bergsoniano che prende corpo nella continua morfogenesi de Le Cosmicomiche. Una catena plurimillenaria di segni, quelli delle civiltà e dei fenomeni naturali, quelli della letteratura entro cui scrittori, artisti, cineasti si ritagliano il loro stile, cioè quel modo speciale che ogni cosa ha di stare là, come lo definisce Calvino, e che caratterizza anche il classicismo, il cui gesto essenziale, dice Barthes1, è far spiccare. Segni di segni. Il Postmodernismo di Calvino fa ipotesi sulla possibilità di fare ipotesi, come si dice ne Le Cosmicomiche. Non è più il tempo del racconto delle cose, quello del classicismo, nemmeno quello di ipotesi sperimentali sulle forme di narrazione, quello del modernismo, ma è il tempo di fare ipotesi sulle ipotesi, di commentare la propria écriture. Come accade anche nell’incipit di uno dei testi fondativi il Postmodernismo, L’Opera Gallegiante (1956, 1967) di John Barth2, in cui il narratore, che divaga, si domanda come si possa scrivere un romanzo, come si faccia a non perdere il filo del racconto, interloquisce con il lettore, sospetta che possa saperne più di lui sull’arte della narrativa, differisce, accenna a un episodio e lo lascia, promette di raccontare una storia ma più avanti; oppure in La donna del tenente francese: «La storia che sto raccontando è tutta immaginazione»3.
Se ho finora finto di conoscere la loro mente e i loro pensieri più segreti, è perché sto scrivendo in una convenzione (nonché in parte con un vocabolario), universalmente accettata all’epoca in cui si ambienta il mio racconto, secondo la quale il romanziere siede accanto a Dio. Può non sapere tutto, ma cerca di fingere il contrario. Io però vivo nell’epoca di Alain Robbe-Grillet e Roland Barthes; se questo è un romanzo, non può che esserlo nell’accezione moderna del termine4.
Quella di Calvino è una scrittura fatta di rimandi e inserimenti, coalescenze e sovrapposizioni, sempre più disseminata e distribuita, come ne Le città invisibili, un grappolo rizomatico di racconti, un bestiario. La scrittura di Calvino, con Le Cosmicomiche, Le città invisibili e nel filosofico Palomar (1983), in cui confluiscono Leibniz, Peirce e Bergson, individuale e cosmico, diventa sempre più una struttura sfaccettata, disseminata, distribuita, una dialettica tra cristallo e fiamma, come dice Calvino nelle Lezioni americane (1985). Invarianza e regolarità ma di strutture specifiche (cristallo) e costanza di una forma al cui interno c’è un’agitazione continua (fiamma). Una razionalità irrequieta che ha veduto l’inferno con attenzione e ha saputo riconoscere che cosa non era inferno (Le città invisibili), sforzandosi di svelare la ricchezza infinita delle cose da guardare (Palomar), di attraversare e descrivere la città e la realtà tutta come, di volta in volta, sistema percettivo, semiotico, come museo, coesistenza di vecchio e nuovo, insieme di sottoinsiemi, enciclopedia di enciclopedie. Un mondo di segni la cui consultazione si riflette nella descrizione della lingua di Palomar sempre innervata da una tensione alla esattezza che frena l’astrattezza dei linguaggi sempre più alienanti. «L’universo come regolare e ordinato» e «come proliferazione caotica», l’universo della scrittura di Calvino è «finito ma innumerabile, instabile nei suoi confini», «una complicata armonia che comanda quel trapestio disarmonico d’una proporzione interna che lega tra loro le più vistose sproporzioni anatomiche», una «grazia naturale» da cui vengono fuori «movenze sgraziate»5. «Effetti di tempeste atmosferiche immani» tradotte in «un disegno ordinato e calmo», che ricordano il cinema di Godard degli anni Ottanta.
Prima di Calvino, Joyce comincia muovendosi in un ambito ancora naturalistico, la rappresentazione narrativa (mimetica), come la chiamano Scholes e Kellog6, introducendo semmai sottilmente alcuni simboli, per poi debordare i confini del realismo, incarnando il carattere illlustrativo (simbolico, allusivo) della narrativa, nelle sue opere più mature. Anche se, in ultima analisi, l’atteggiamento dominante di Joyce è innestare il realismo nel simbolismo e viceversa. Nel caso di Calvino – anche per ragioni individuali e anagrafiche e storico-sociali, invece, si tratta di una transizione dal Realismo al Modernismo fino al Postmodernismo.
In effetti sono soprattutto i testi postmodernisti non tanto a citare ma a incorporare (intertestualità) e a commentare altri testi e anche se stessi (metatestualità), così come i testi modernisti trasformano e citano testi classici (ipertestualità).
È quello che fa John Fowles in La donna del tenente francese, i cui i testi incorporati (Austen, Tennyson, Arnold, Marx…) semmai hanno quasi la funzione del prologo euripideo, anticipano, annunciano, offrono una chiave di lettura rispetto al capitolo che aprono. Lettore di Marx e Freud, Fowles ibrida la sua sensibilità moderna, se non postmoderna, con una scrittura che sembra ripetere, imitare, modellarsi sulla lezione di Jane Austen o, magari, Thomas Hardy, tra compromesso vittoriano e reazione anti-vittoriana. Ci sono un’eleganza classica e un’urbanità di maniere, tocchi stilistici sobri e certe malizie che ritraggono il mondo provinciali, variazioni su un ambiente chiusi, tutti tratti peculiari di Austen. Uno dei suoi personaggi, il dottor Grogan, si appella all’autorità della voce della coscienza socratica, evitando certi eccessi, s’intende, un po’ come suggeriva Arnold. Il personaggio principale, Charles, è diviso sulla soglia che separa due mondi, come accade sempre in Arnold. Altri personaggi sembrano animati da quella tendenza filantropica in cui si traduceva il riformismo piuttosto timido dell’epoca riflesso anzitutto nei romanzi di Dickens, da cui Fowles cava fuori il caratteristico servo di Charles. Ci sono arriviste alla Becky Sharp, il personaggio di Vanity Fair (1847-48) di Thackeray e anche impennate di moralismo, proprio come in Thackeray. Stilettate di emancipazione femminile come nelle sorelle Brontë, eroine femminili che attraversano fieramente la natura selvaggia e osano sfidare una certa delicatezza dell’epoca vittoriana, come in Jane Eyre (1847). Il contrasto tra razionalismo utilitarista e adesione alla sensualità della vita, tipico di Arnold. La prevalenza del sentimento che rabbuia e allontana la luce della ragione, come in Tennyson. La campagna e l’amore, una certa tensione alla minuta descrizione dello sfondo naturale, come in Hardy7. E così via. Un’ibridazione intertestuale, metatestuale e ipertestuale.
Ma è anche quello che fa Godard, i cui film degli anni Sessanta erano stati chiamati da Calvino film–essai. À bout de souffle (1960) è costellato di citazioni che rimandano al cinema classico e, in particolare, a Fallen Angel (1945) di Otto di Preminger, un film “nero” americano ma anche a Where the Sidewalk Ends (1950), ancora di Preminger. Godard aveva l’intenzione di girare un film di quel tipo – e genere. Un film “nero”, certo di un classicismo già lavorato, sottoposto a torsione interna, curvato e rigato da Preminger. Inoltre l’attrice del film, protagonista insieme a Jean-Paul Belmondo – che fa il verso a Bogart – è quella Jean Seberg, che aveva esordito poco prima proprio in due film di Preminger: Saint Joan (1957) e Bonjour tristesse (1958). Belmondo, a sua volta, già attore nel quarto cortometraggio di Godard, Charlotte et son Jules (1958), e interprete, poco prima del lungometraggio di Godard, di À double tour (1959), un altro dei “jeune Turcs”, Claude Chabrol, co-autore con Eric Rohmer – altro critico dei Cahiers e regista della Nouvelle Vague – di un libro su Alfred Hitchcock e collaboratore di Godard in questo suo primo lungometraggio. Insomma, À bout de souffle, ancor prima di essere un film, moderno, ecc., è una costellazione che agglutina intorno a sé motivi e rimandi, anzitutto alla storia del cinema: una semiosi infinita. Per citare le categorie di Genette8: ipertestuale, paratestuale (in rapporto all’ambiente, al clima della Nouvelle Vague, alla “série noire” della Gallimard, ecc.). ma queste “transtestualità” si incrociano tra loro. Come ha spiegato Genette9, c’è un “transtesto” che istituisce affinità e relazioni fra testi che sono tra loro differenti e lontani e che, così, si configurano come “palinsesti”. Non solo, ma film classici sono comunque architestuali, pur non dichiarando fonti e testi anteriori, rimandano o entrano in risonanza con questi e in questo caso è compito del lettore/spettatore e del critico cogliere queste relazioni segrete.
Insomma, come ha scritto Melville, la verità ha confini arruffati. I modernisti Duchamp e Joyce hanno già tratti di postmodernità. Confini arruffati e sottili. Nel 1947 Jackson Pollock dipinge Full Fathom Five, un capolavoro del Modernismo e per altri del Tardo modernismo, ma Pollock ha ispirato anche artisti postmodernisti come Kaprow, Morris e Warhol; nel 1949 Nicholas Ray gira il suo primo lungometraggio. Nel 1955 Robert Rauschenberg assembla Charlene (1955) e nel 1956 John Barth pubblica The Floating Opera, ispirato dai modernisti Joyce e Faulkner. Nel giro di pochi anni si ha una transizione dal Modernismo al Postmodernismo. Il cinema, probabilmente, è stato in più ritardo, ha dovuto attendere gli anni Settanta per questa transizione e certamente non film come Comma22 (1970) di Mike Nichols che adattano, convenzionalmente, semplificandolo molto il romanzo seminale del Postmodernismo Comma22 (1961) di Joseph Heller.
La tabella che segue, in fondo, è un gioco per rimescolare ancora le carte. Ma prima di quella… Jean-Luc Godard: classico, moderno e postmoderno. L’uomo che, quando era Hans Lucas, ha difeso il découpage classico innamorandosi del classicismo. Colui che ha incarnato, se non personificato il cinema moderno e che ha ispirato non pochi artisti postmoderni.
Il cinema, ovviamente, è un montaggio, lo è ancora di più delle altre arti e, infatti, solo il cinema può fare quello che ha fatto Godard con le Histoire(s) du cinéma (1988-99): raccontare tutte le storie nella storia del cinema. Il cinema è montaggio ma non solo linguisticamente e stilisticamente (il montaggio di Griffith, quello di Ejzenstejn, quello di Brakhage, quello di Godard, ecc.). L’articolazione (cinema organico e classico) e disarticolazione (cinema moderno, cinema sperimentale) del suo linguaggio dipende dal montaggio, certo. Ma il cinema è ontologicamente, sostitutivamente montaggio. Si istituisce in quanto montaggio appropriandosi di una pluralità di elementi. È, infatti, un assemblaggio di media (teatro, romanzo, pittura, fotografia, ecc.), di esperienze ottiche e tattili, di tecniche, di processi sociali e culturali, di identificazioni e disidentificazioni, ecc. La macchina-cinema funziona istituzionalmente come un reticolo di procedure e formazioni discorsive e ontologicamente il cinema è un’eterogeneità mobile, un concatenamento di elementi tra loro differenti. Fin dall’inizio il suo modo d’essere è un montaggiodi media, potremmo dire paradossalmente che fin dall’inizio il cinema è postmediale. Modernista in quanto critica della rappresentazione, ma postmoderno perché postmediale. D’altronde, il postmediale è in cammino sin dai tempi del Dadaismo.
Anche quando ritorna ad un linguaggio classicheggiante, come nei primi anni Ottanta, Godard non smette di inquisire in termini moderni e modernisti il medium e il panorama mediale. E poi, come detto, già À bout de souffle era costellato di citazioni che rimandano al cinema classico.
Il racconto (la storia) in Détective (1985) è dislocato e disgiunto nei racconti, la totalità del racconto classico diventa una spaziatura non-chiusa, aperta, dispersa. Con Détective c’è come uno spostamento ulteriore, rispetto a quello che intercorre tra Sauve qui peut (la vie) (1980) e Je vous salue Marie (1984): dall’ontologia del presente alla analitica della verità, dalla polarità immagine-suono a quella del racconto. L’indagine questa volta è sul racconto e le sue logiche, che poi sono quelle che presiedono anche alla narrazione della Storia. Storie, Storia, Cinema confluiscono, come fiume nel mare, in For Ever Mozart (1996).
Détective è un film su quelle storie, su quel racconto di cui Godard non si è mai disinteressato, nemmeno negli anni Sessanta, anzi, che come pochi a contribuito a rilanciare, innalzare, decostruendolo e espandendolo a raggiera. Non solo e non più soltanto per interrompere, frammentare, moltiplicare il racconto, ma anche – e per certi aspetti, dopo la modernità cinematografia e il postmoderno nelle arti – ritornare al racconto, che non è mai lineare, come nel classicismo, ma che è destrutturato con più dolcezza rispetto ai film degli anni Sessanta, anche se come una macchina idraulica, configurato come fluidi che passano gli uni negli altri.
Hélas pour moi (1992) è una soglia, luogo di transito reversibile di classicismo e modernità, tra una figurazione classica e una narrazione moderna. In Nouvelle vague (1990) la mostrazione è classica, la narrazione è moderna. Le immagini, i movimenti di macchina articolati, raffinati, contemplativi e morbidi, insomma le forme sono classiche (di un classicismo pervenuto alla sua autocoscienza), mentre le tecniche di costruzione narrativa sono moderne.Il ritorno al cinema co-incide con il ritorno al classicismo. Sauve qui peut (la vie) è il ritorno di Godard al cinema – un ritorno che è differenza. Marcato da un movimento di macchina di un, anzi, che è come un cielo azzurro: movimento. Il movimento e la bellezza. La bici, il treno, il vento e la composizione figurativa. È un film, se si vuole, gelido e duro, ma splendidamente composto. La tragedia della dissoluzione dei rapporti umani raffigurati alla maniera di un Lessing, sul modello del Laooconte, classicamente, quasi a lenire il dolore: è Godard, malato immaginario, regista in crisi che non vuole più fare film, ospite di una clinica, a dire in Prénom Carmen (1982) che i classici funzionano sempre.
Godard è dialogico, lampeggiante, discontinuo, citazionista, modernissimo, perfino quasi postmoderno, ciò nonostante, c’è sempre una tensione all’esattezza, per dirla ancora con Calvino, un certo gusto per l’ordine, sebbene questo sia quello ricomposto del collage, un atlante che moltiplica le storie. Godard, per citare Queneau citato da Calvino, conosce le regole del classicismo e la sua modernità consiste nel farne un nuovo e libero uso, creando con sapienza un’intertestualità che è una grande rete aperta e disseminata che, fin dai tempi di À bout de souffle e Pierrot le fou mette in crisi la “Politique des auteurs”, il culto della personalità dell’autore, entrando in risonanza con la bathesiana morte dell’autore e la foucaultiana morte del soggetto10 (cartesiano, possessivo, individualista, maschilista, patriarcale, borghese), poiché il self «è una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni»11. Del resto sono gli anni in cui i personaggi de Il cavaliere inesistente dicono “Non so chi sono” e Anna Karina, citando Rimbaud, “Je ne sais pas… Je suis un autre” (Vivre sa vie, 1962) – ma la presenza si era già rivelata fragile, fessurata e moltiplicata ne Les Maitres fous (1956) di Jean Rouch. Nel 1969, nel suo romanzo La donna del tenente francese, Fowles scriveva: «Il romanziere resta sempre un dio, dal momento che crea (neanche il più aleatorio dei moderni romanzi d’avanguardia è riuscito a sopprimere completamente il suo autore); ciò che è cambiato è che non siamo più gli dèi dell’immagine vittoriana, onniscenti e sentenziosi; ma dèi secondo una nuova immagine teologica, e il nostro principio fondamentale è la libertà, non l’autorità»12. Ne La donna del tenente francese l’autore confessa di non sapere, di conoscere il mistero dei suoi personaggi, segnatamente quello di Sarah, ammette che i personaggi hanno una loro libertà. Mentre i personaggi di Tess dei d’Urberville (1891) di Thomas Hardy sono come marionette meccanicamente manovrate dalla concezione fatalista dell’autore. In La donna del tenente francese l’autore si intromette non solo come voce che esita ma addirittura come personaggio che osserva. Anche Welles era entrato dentro il film, non come attore ma come autore nel finale di The Magnificent Ambersons, così come fa Godard quando rimpiazza la voce del personaggio maschile di Le Petit soldat (1960) o (con la sua voce over) nell’incipit di Le Mépris (1963) e poi ancora più intrusivamente nei film successivi.
Del resto Deleuze, appoggiandosi al plurilinguismo di Bachtin, osservava proprio questo a proposito dei film di Godard, quelli del primo periodo. Quello che abbiamo sempre chiamato modernità in Godard, in letteratura – si pensi a Fowles – si chiama postmodernità.
In opposizione all’epopea o alla tragedia, Bachtin definiva il romanzo come privo dell’unità collettiva o distributiva attraverso la quale i personaggi parlavano ancora un solo e medesimo linguaggio. Al contrario, il romanzo prende necessariamente a prestito talora la lingua corrente anonima, talora la lingua di una classe, di un gruppo, di una professione, talora la lingua propria di un personaggio. Cosicché i personaggi, le classi, i generi, formano il discorso libero indiretto dell’autore, mentre l’autore forma la loro visione libera indiretta. O piuttosto i personaggi si esprimono liberamente nel discorso-visione dell’autore e l’autore, indirettamente, in quello dei personaggi. Insomma è il riflettersi nei generi, anonimi o personificati, che forma il romanzo, il suo “paralinguismo”, il discorso e la sua visione. Godard dà al cinema le potenze che sono del romanzo13.
Il cinema con Godard – analogamente alle altre arti – si fa sempre più postmediale, tende a debordare la specificità del medium – su cui si attardavano ancora anche i teorici più brillanti – per ibridarsi all’architettura, al romanzo, al fumetto, alla pittura, alla filosofia e alla politica. La politica di Jean-Luc Godard.
Non una politica che assolutizza i termini (classico, moderno, postmoderno) in una logica oppositiva che esalta l’epopea retorica della lotta e l’altrettanto retorica e stucchevole narrazione del progresso, ma una politica della differenza, di una virtualità che, al tempo stesso, con-tiene e differenzia classico, moderno e postmoderno.
Toni D’Angela
CINEMA CINEMA CINEMA
CLASSICO MODERNO POSTMODERNO
rappresentazione crisi della pastiche/ironia
narrazione rappresentazione
trasparenza dispositivo inquisizione/materialità dispositivo citazioni/impurità testuale
invisibile/finestra decostruzione e modulazione
generi crisi e forzatura dei generi decostruzione dei generi
retorica (discorso/autore) stile (autore) fusione di discorsi e stili (combinatoria)
regole violazione delle regole rifusione di regole e violazioni
opere-limite testi palinsesti/ibridazioni
sveltezza movimento aberrante indecidibilità/incompletezza
tempo indiretto lineare tempo diretto/fessurato temporalità frantumata
emozioni soggettive crisi emozioni/affezioni/ affezioni non più soggettive/soggetto
crisi del soggetto già morto
organico/strutturato disorganico/discontinuo schizofrenico
continuity intensified continuity post-continuity
mimesis simbolismo allegoria
fordismo crisi e transizione postfordismo
pittura figurativa Manet, Picasso, Klee Rauschenberg, Morris, Rosler
Fielding, Defoe, Balzac, Flaubert, H. James, Joyce, (Borges) Cortázar, Calvino, Pynchon Balzac (Borges) Fowles
Griffith, Murnau, Ford, Welles, Godard, Resnais, Altman, PT Anderson, Van Sant,
Vidor Snow Weerasethakul
The Big Sleep (1946) Kiss Me Deadly (1955) The Long Goodbye (1973)
1 Cfr. Roland Barthes, Barthes di Roland Barthes, cit., p. 80.
2 Cfr. John Barth, L’Opera Galleggiante, minimum fax, Roma 2018, pp. 31, 52, 155.
3 John Fowles, La donna del tenente francese, Mondadori, Milano 1970,p. 109.
4 Ibidem.
5 Cfr. Italo Calvino, Palomar, Mondadori, Milano 1994, pp. 34, 42, 82.
6 Cfr. Robert Scholes – Robert Kellog, La natura della narrativa, cit., pp. 105-115.
7 Su questi temi ricorrenti nella letteratura vittoriana e anti-vittoriana si vedea: Mario Praz, La letteratura inglese dai Romantici al Novecento, BUR, Milano 1992.
8 Cfr. Gérard Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Einaudi, Torino 1997.
9 Cfr. Ivi.
10 Cfr. Roland Barthes, Le Degré zero de l’écriture, cit; Roland Barthes, “The death of the author”, cit.; Michel Foucault, “Che cos’è un autore?”, in Michel Foucault, Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 2004; Toni D’Angela, “Politique des agencements. Sul concatenamento discorso/autore”, La Furia Umana, n. 27, 2016, http://www.lafuriaumana.it/index.php/60-archive/lfu-27/491-toni-d-angela-politique-des-agencements-sul-concatenamento-discorso-autore
11 Italo Calvino, Lezioni americane, cit., p. 121.
12 John Fowles, La donna del tenente francese, cit., p. 111.
13 Gilles Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 209.